18 mar 2016

La foresta dell'unicorno

Continua l'operazione atta a rispolverare le vecchie storie del blog! Oggi tocca a "La foresta dell'unicorno". Si tratta di un racconto fiabesco che, pur affrontando temi adolescenziali (specialmente nella seconda parte), si presta a essere letto da tutti. Curiosità: inaspettamente ha degli elementi in comune con "Il fantasma nero" pur appartenendo a  un genere completamente diverso, a voi scoprire quali. 
Vi lascio alle parole del racconto:

La foresta dell'unicorno
 

(1) Il sole era sorto da poco, tingendo le nuvole e il cielo di un rosa leggero.
Gli occhi verdi di Elena brillavano, spalancati per godere di quello spettacolo.
La piccola mano della bambina stringeva quella della madre, che le sorrideva affettuosamente. I loro capelli erano di quel castano chiaro che il sole fa sembrare dorato; come accadeva ora, portandole entrambe a risplendere fra quei giochi di luce naturali, ma apparentemente irreali.
Si trovavano in una lunga distesa pianeggiante, dove sorgevano nuovi campi coltivati.
Verso est si scorgeva un grande lago con le acque sospinte dalla brezza, dal quale si diramavano tanti piccoli ruscelli e un lungo fiume, che scorreva verso nord fino a nascondersi in una foresta rigogliosa: un luogo misterioso, agli occhi di un bambino, che alimentava la curiosità per un ignoto, seppur temibile, attraente.
Appena più a nord si potevano ammirare delle maestose montagne, che parevano proteggere la foresta come un roccioso semicerchio. Da lì, la vista non poteva spingersi oltre.
Madre e figlia erano arrivate in quella terra il giorno stesso. Il padre di Elena e altri uomini avevano ottenuto il permesso, dal proprio signore, per coltivare quella zona fertile abbandonata a sé.
Era un’occasione per vivere una vita tranquilla, guadagnarsi il proprio sostentamento e non soffrire la fame. Praticamente un miracolo.
Gli uomini si erano spostati in anticipo per edificare le case e cominciare a lavorare i campi, e in quel giorno, finalmente, le loro famiglie si sarebbero ricongiunte.
Fu così anche per la famiglia di Elena: moglie e marito si abbracciarono e baciarono  e la bambina venne sollevata in alto con affetto.

(2) Avevano una piccola casetta in legno, ora, dotata di tutto il necessario, e anche se niente, in quella terra, era davvero loro, la consideravano comunque tale.
Sarebbe stato facile affezionarsi a quel posto. Le persone, per l’opportunità concessagli, provavano un’istintiva fratellanza, che le spingeva a collaborare. In breve tempo divennero tutti amici, sia che si conoscessero da prima o meno.
I bambini erano felici. A differenza dei loro genitori sarebbero cresciuti in un luogo magnifico, dove giocare e correre in lungo e in largo. Alla piccola Elena, però, tutto questo non poteva bastare. Non per soddisfarla pienamente, quantomeno.
Era troppo curiosa, lei, più curiosa di ogni altro bambino. Le pianure erano belle, certo, spaziose, tranquille e sicure, ma quella foresta a nord, fonte di possibili misteri, era molto più interessante.
La bambina veniva ammonita spesso di non allontanarsi troppo. Doveva sempre rimanere vicina alla mamma, affinché potesse controllarla. I genitori avevano colto la sua vena da esploratrice, ed essendo il piccolo tesoro di famiglia non volevano corresse neanche uno rischio.
Fu per questo che s’insospettirono subito, quando la piccola cominciò a chiedere di portarla a vedere la foresta.
Per tutta risposta, quello, divenne un luogo proibito e la bimba iniziò in un lampo a fare i capricci. Più glielo negavano, più desiderava andarci.
Un’altra madre, coi figli pestiferi, suggerì ai genitori di Elena di demonizzare la foresta. Il padre cominciò a raccontarle delle storie su un pericoloso mostro che l’abitava: un lupo gigantesco e cattivo, dal manto nero e gli occhi rossi, che mangiava i bambini.
Il piano, in qualche modo, funzionò.
La piccola Elena era combattuta: voleva ancora scoprire i misteri della foresta, ma cominciava anche a temere d’imbattersi nel lupo gigante.
Smise di chiedere di andarci. I suoi genitori si sentirono sollevati.

(3) Passò del tempo e i campi si fecero prosperi,  portando tutti a immaginare un grande raccolto autunnale. Le donne, dopo che gli uomini si erano assicurati che non vi fossero pericoli, avevano deciso di andare a raccogliere dei succosi frutti che crescevano nella foresta.
Avrebbe partecipato anche la madre di Elena, che s’interrogò se tenere la figlia con sé o lasciarla in custodia a qualcuno. Dopotutto sarebbero state parte di un gruppo, e le altre donne volevano portare i bambini per farsi aiutare. Ultimamente la piccola aveva parlato poco della foresta e questo convinse sua madre a cedere. Suo padre le disse che il lupo gigante, se fosse rimasta vicina agli altri, non si sarebbe fatto vedere. Elena, elettrizzata all’idea di esplorare quel luogo misterioso, aveva già perso ogni timore.
Il giorno tanto atteso, arrivò.
Visti da vicino, gli alberi della foresta erano ancora più grandi, e altissimi. Il verde dominava e l’erba le arrivava alle ginocchia. Attorno al gruppo cinguettavano tanti uccellini e una piccola coccinella si arrampicò sulla sua gamba, facendole il solletico. Elena la portò a camminare sulla sua manina, esaminandola con occhi meravigliati e gioiosi.
Per un istante le parve persino di scorgere una creaturina pelosa, che scappò fulmineamente verso un ramo. Avrebbe voluto vederla meglio. Voleva vedere tutto!
La piccola era diventata incontenibile. Saltellava, toccava ogni cosa e faceva domande in continuazione. La madre, che dovette recuperarla innumerevoli volte, cominciò a pentirsi della sua scelta, ma ormai era troppo tardi.
Elena non aveva paura di niente. Come avrebbe potuto? Quella foresta era bellissima, come l’aveva sognata. Non voleva andarsene più!
Le donne sostavano spesso per raccogliere i frutti. Avevano portato delle larghe ceste che pian piano si riempivano dei più belli e colorati. I bimbi attorno a loro giocavano rumorosamente, ben pochi aiutavano realmente le madri e alcuni provavano persino a rubare dalle ceste ridacchiando, per poi piagnucolare quando, scoperti, gli venivano pestate la mani.
Elena preferiva stare per conto suo. C’erano più maschietti che femminucce, e le poche, stavano per lo più attaccate alla gonna di mamma. Solamente lei era fuori controllo.
I maschietti, esagitati, la ignoravano. Se concedevano attenzioni a qualcuno, in genere, era per azzuffarsi senza particolari ragioni.
La bimba, dal canto suo, non badava a loro; era troppo impegnata a guardarsi attorno. 
In quel preciso istante, ad attrarla, fu un rumore.
Si dondolò sulle punte dei piedi per un po’, cercando di ascoltare meglio: era uno scroscio d’acqua.
Le donne stavano riempiendo ancora le ceste. La bimba vide che la mamma era all’opera e ne approfittò per avvicinarsi alla fonte del rumore, superando qualche albero di troppo che la nascose alla vista.
Un fiume apparve di fronte ai suoi occhi, con tante pietroline di varie forme su entrambe le sponde.
Elena, senza pensarci due volte, si avvicinò svelta svelta all’acqua per immergervi un piedino. Era davvero fredda!
«Che fai?»
La piccola sentì una voce alle sue spalle e si girò di scatto.
Vide un bimbo, poco più alto di lei, coi capelli scuri e gli occhi chiari come il fiume. Aveva le guanciotte gonfie e la guardava con aria preoccupata.
La bimba rise e senza rispondergli gli diede nuovamente le spalle.
Il bambino gonfiò ancor più le guance e decise di avvicinarsi. La sua andatura era un po’ goffa e il terriccio e i sassi scivolosi peggioravano soltanto le cose.
«Non ci dobbiamo allontanare!» esclamò, sempre più preoccupato.
La bambina continuò a ignorarlo.
«Torniamo!» insistette al limite della disperazione e uno dei suoi piedini sdrucciolò in avanti.
Pochi istanti e fu col sedere a terra.
La bimba si girò in quel momento e scoppiò a ridere.
«Come sei buffo!» esclamò fra una risata e l’altra.
Il bimbo si arrabbiò. L’aveva seguita per salvarla dall’essere sgridata e lei lo prendeva in giro. Tornato in piedi e rosso in volto avanzò spedito, braccia in avanti. La spinse e la fece cadere.
Elena scoppiò a piangere.
Il bambino, confuso, indietreggiò di qualche passo. Lei balzò in piedi, asciugandosi gli occhi con i pugnetti chiusi, per poi scappare via e superare il fiume, fino a sparire dietro agli alberi.
Con tutto quel rumore, poco dopo, la madre di Elena e altre donne raggiunsero il fiume, trovando solamente il bimbo, ancora confuso, che osservava l’altra sponda.
Interrogato seppe solamente dire che Elena era scappata. La madre di lei, preoccupata, si affrettò a cercare di raggiungerla.

(4) La piccola correva per la foresta, senza guardarsi attorno. Non pensava a quel che faceva, si limitava a scappare dal bimbo cattivo, che non voleva più vedere. Solamente dopo aver corso a perdifiato, realizzando d’essersi persa, si fermò spaventata.
Si guardò attorno. Provò a chiamare la mamma, poi il papà, ma nessuno rispose.
Fu pensando al padre che le tornarono in mente le sue parole: fino a che fosse rimasta con gli altri, il lupo gigante non l’avrebbe presa.
Ora era sola.
L’incanto della bella foresta sparì, lasciando il posto alla paura.
Ombre e sibili del vento la portavano a sobbalzare continuamente.
La bimba, col volto rigato dalle lacrime, non sapeva cosa fare. Si rannicchiò contro un albero, proteggendo la testa fra le braccia e le ginocchia.
Non vedere le cose brutte, però, non era d’aiuto; non lì. I rumori continuavano e, senza lo sguardo a rassicurare la mente, fantasie sempre più spaventose si facevano largo.
Un rumore molto forte, prima distante, parve approssimarsi. Non era il vento, non le foglie, ma qualcosa che si muoveva, che si avvicinava lentamente.
Elena singhiozzava. Voleva guardare, ma non ne aveva il coraggio. Quello era il lupo gigante, lo sapeva, il padre l’aveva avvisata: mangiava i bambini e ora avrebbe preso anche lei.
Lo sentiva, vicinissimo, probabilmente a un passo. Se avesse aperto gli occhi avrebbe certamente visto il suo manto scuro, le iridi rosse, i denti affilati.
Forse fu il desiderio di fuggire a spingere le sue palpebre ad aprirsi lentamente, mentre le mani sfioravano l’arbusto alle sue spalle, per tirarsi su tocco a tocco.
Gli occhietti si spalancarono.
C’era una luce intensa. La irradiava una creatura, che non aveva il manto nero, bensì bianco candido. Non era affatto un lupo. Era simile a un cavallo, ma con un lungo corno affusolato sulla fronte.
Gli occhi azzurri del destriero trasmettevano saggezza, come se parlassero.
Elena, sconcertata, osservava l’unicorno. La paura era svanita. Con quella creatura si sentiva inconsciamente più al sicuro che coi suoi genitori.
Il destriero impennò con grazia ed eleganza, poi si avvicinò alla bimba, osservandola negli occhi senza mai scostare lo sguardo.
Lei, incantata, allungò una mano verso il suo collo. La creatura non indietreggiò e si lasciò accarezzare.
Elena sorrise felice. Aveva trovato il segreto della foresta: una creatura magica, ciò che in cuor suo sperava di scoprire.
L’unicorno l’aiutò a salirgli in groppa e si mosse adagio per passeggiare con lei. La condusse fino a uno spiazzo, nel quale si ergeva solamente una grande quercia.
Il destriero si avvicinò all’albero, per poi accovacciarsi e dare modo a Elena di scendere. La bimba riprese ad accarezzarlo.
Era così bella, quella creatura. La piccola percepiva ciò che l’unicorno voleva dirle senza il bisogno di parole. Comunicavano con gli sguardi, come per magia.
Elena sapeva che, da quel giorno, la foresta sarebbe stata la sua vera casa, un luogo dove non temere più nulla.
L’unicorno era il suo guardiano e avrebbe sempre scacciato le ombre.
Sarebbero rimasti amici per la vita.

(5) Elena, il giorno stesso, ritrovò la strada di casa. Fu l’unicorno a indicargliela.
I genitori, disperati, non erano riusciti a trovarla. Vederle superare la soglia fu un incredibile sollievo. 
Non venne sgridata, inizialmente, ma da quel momento la sorvegliarono rigidamente.
Elena, dunque, prese l’abitudine di allontanarsi la notte, di nascosto, lasciando la sua vecchia casa per raggiungere quella nuova: la foresta.
La guidava una luce fatata, ogni volta, che non le consentiva di perdersi fra le ombre e la portava al suo guardiano: l’unicorno.
Mentre erano assieme, la luce diveniva intensa come quella del giorno.
Notte dopo notte, anno dopo anno, Elena divenne adolescente e i genitori non scoprirono mai le sue fughe notturne, smettendo di sorvegliarla ossessivamente.
Elena, ora, si recava nella foresta a ogni occasione. Il suo legame con l’unicorno era indissolubile, si trattava di una simbiosi magica, diversa dall’amore per un famigliare o per un uomo, ma egualmente intensa.
Cavalcava con lui fra gli alberi, e lasciava che le rivelasse ogni segreto della natura circostante. Nessuno conosceva quei luoghi che la metà di lei. Tra i contadini c’era chi cominciava a pensare che, la ragazza, sapesse a addirittura parlare con le creature e le piante. Persino suo padre rimase di stucco quando, la figlia, gli consigliò come rendere più rigogliosi i campi, e con strabiliante successo.
Elena era più intelligente e pura di ogni altra ragazza del luogo, un dono, avrebbe detto qualcuno. La dolce bambina, crescendo, era divenuta anche bella e ne conseguirono sguardi incantati da parte degli uomini e d’invidia da parte delle donne.
A lei, quegli sguardi, interessavano poco. Non si riteneva superiore a nessuno e la sua testa, oltretutto, era sempre altrove. Il suo impegno ad armonizzarsi col mondo circostante, ironicamente, la faceva risultare in disparte e la conduceva a tralasciare gli svaghi più comuni.
Alcuni ragazzi, sicuramente, la ritenevano un po’ stramba, e si rivolgevano a lei senza intenzioni serie; questo esaudiva le ragazze più pettegole, che avevano di che parlare.
Una solo persona non apparteneva a entrambe le categorie: un ragazzo piuttosto alto, dai capelli corti scuri e gli occhi chiari come le acque di un fiume.
Il lavoro nei campi col padre lo aveva reso robusto, ma era rimasto un po’ goffo, specialmente quando sotto pressione.
Tempo addietro era stato sgridato sonoramente per aver fatto scappare una bambina nella foresta. Si era sentito incredibilmente in colpa, anche dopo che la bambina, per grande fortuna, era stata ritrovata.
Per certi versi era rimasto arrabbiato, con lei. Nessuno aveva mai capito che non era stata solamente colpa sua. Questo gli consentiva di riconoscerla sempre, e col passare degli anni, guardandola e riguardandola, tra rabbia e senso di colpa, si ritrovò a confrontarsi con qualche altro strambo pensiero.
Il suo sguardo, oramai, era essenzialmente imbambolato. Peraltro non aveva il coraggio di parlarle, e se lei ricambiava lo sguardo, diveniva rosso come le coltivazioni di pomodori. A quel punto la goffaggine prendeva il sopravvento.
Il più delle volte inciampava durante una tentata fuga, attirando ancor più l’attenzione.
Elena, come detto, era distratta, ma a suon di ruzzolate, il giovane era riuscito a rimanerle impresso. La ragazza, ormai, rideva per ognuno di quei buffi siparietti, e ogni volta che lo faceva, lui si irritava, gonfiando le guance.
La stessa Elena divenne distratta, una distrazione diversa, che sconvolgeva un equilibrio.
Un giorno, il ragazzo, indispettito dall’ennesima caduta e la conseguente risata della ragazza, ammutolì, quando realizzò che si era avvicinata a porgergli la mano per aiutarlo a rialzarsi.
Elena gli sorrideva e lui non riusciva a smettere di guardarla, al punto di lasciarla lì, con la mano tesa, il tanto sufficiente da farle chiedere se stesse bene.
Realizzando l’accaduto, il ragazzo scosse la testa, rialzandosi da solo.
Un silenzio imbarazzante dominò la scena.
Lei scoppiò a ridere di nuovo e il ragazzo tornò imbronciato.

(6) Si trovarono a passeggiare assieme fino alla recinzione di uno dei campi. Vi si appoggiarono per osservare l’orizzonte.
Mancava poco al tramonto, che rendeva quelle pianure uno spettacolo.
La foresta era alle loro spalle.
«Mia madre mi ha parlato di te. Ti chiami Argo, vero?»
Elena aveva un’aria divertita, questo lo fece tentennare. Guardò al lato opposto, prima di tornare a osservarla e risponderle:
«Ehm... sì...» 
«Aiuti tuo padre nei campi, immagino. Tu hai intenzione di restare? Alcuni pensano di vagabondare fino alla città, ma non so quanto ne verrebbe a gente come noi.»
Il ragazzo parve interdetto, come se l’idea di andarsene da quella terra non gli fosse mai passata per la mente.
«Io resto.» affermò pacato, tornando a osservare l’orizzonte  «Qui mi piace. È un posto sereno. Ho già la fortuna che mi serve.»
La ragazza sorrise.
«Sono perfettamente d’accordo.»

(7) Elena passeggiava per la foresta. Stava per raggiungere la radura della grande quercia e canticchiava fra sé e sé. Argo camminava alle sue spalle.
«Quindi è qui che vieni quando... ehm... quando vuoi stare sola?» le domandò il ragazzo, guardandosi attorno.
«È un posto che vale la pena vedere sempre!» rispose lei, allegra.
Si avvicinarono entrambi ai piedi della quercia e Argo accennò un sorriso.
«È un bel posto, sì.» concordò.
«Aspetta di vedere il meglio!»
Pareva che Elena attendesse l’arrivo di qualcuno.
Passò del tempo e Argo divenne confuso. Le luci del tramonto erano ormai tenue.
«Fra poco farà buio.» valutò il ragazzo «Sarebbe... ehm... dovremmo tornare a casa. Penso...»
Elena sembrava delusa, non smetteva di guardarsi attorno. Cedette.
«Hai ragione. Comincia pure ad andare. Devo fare un attimo una cosa, ci rivedremo domani!»
Cercò di sorridergli. Argo annuì, tentennò un poco e poi iniziò a incamminarsi. Quando stava per lasciare la radura si rigirò un istante, come se volesse dire qualcosa, ma lasciò perdere, si gratto il capo e scomparve alla vista.
Gradatamente arrivò il buio, un buio profondo. La luce fatata non si mostrava e nemmeno l’unicorno.
Elena, preoccupata, sentì riemergere dentro di sé vecchi timori. L’ansia crebbe di minuto in minuto.
Un rumore alla sua destra la fece voltare di scatto. Quello di un ramo che si spezza, seguito da un movimento nella boscaglia.
Ora distingueva bene i suoni, ed era questo a preoccuparla: essere consapevole che non si trattasse del vento, né di un passerotto o di una lepre.
Qualcosa avanzava a passi pensati, e non erano gli zoccoli di una creatura bianca e lucente. Appartenevano a qualcosa di più grande, che rievocava vera paura.
Un manto nero emerse dalla selva, le zampe artigliate lo accompagnavano a passo di caccia. Era poco distinguibile in quella oscurità incombente, ma gigantesco nella forma, terrorizzante allo spalancarsi delle palpebre, svelanti iridi rosse come il sangue.
Le sue fauci si aprirono sbavanti, mentre il muso annusava la sua preda, cogliendone la paura, e preparandosi a inseguirla a un solo passo falso.
Elena si mosse all’indietro lentamente, poggiando le mani tremanti alla quercia alle sue spalle, sperando d’essere protetta. Poi si accasciò, rannicchiandosi come la bambina del passato, mentre le lacrime affioravano copiosamente.
Perché non era più al sicuro?
Il gigantesco lupo non aspettò oltre, percependo la propria preda inerme iniziò a correre, pronto a dilaniarla con artigli e denti.
Una luce affiorò in un lampo da destra.
Il lupo, respinto come da un vento possente, si ritrovò a interrompe la sua corsa. Spostandosi di lato rivolse la fauci sbavanti allo splendore crescente, ringhiando, sbraitando, ma senza potere nulla. Si arrese, in fine, a quella forza luminescente, che lo costrinse a sfuggire nell’ombra e sparire.
Il guardiano, vincitore, scalpitò. Con lo sguardo severo si avvicinò alla ragazza tremante, alla quale aveva appena salvato la vita.
Elena gli abbracciò il collo, ma l’unicorno non la consolò come in passato. Non le trasmetteva quel calore rassicurante di un tempo. Sembrava freddo e così i suoi occhi.
Non avevano bisogna di parlare, fra loro, comunicavano con gli sguardi e con la magia che li univa, ma ora l’unicorno le parlò, nella mente, con parole chiare, il sintomo di qualcosa che si era spezzato.
«La foresta non ti è più devota. Non sei più al sicuro, qui. Le ombre conoscono la tua debolezza e si avventano contro di essa per portarti a loro.»
Elena era confusa. Parlò a sua volta, con un solo sussurrò d’incomprensione:
«Perché?»
Le lacrime, come da bambina, le rigavano il volto; si fecero traboccanti.
«Stai perdendo la tua purezza, Elena, la tua armonia. Il tuo cuore non è più legato al sincrono respiro della foresta, in lui risiede la richiesta di legarsi a un singolo, non più alla moltitudine. Questo ti distrae, ti distoglie da ciò che hai imparato, ti distoglie da me.»
Le ultime parole del guardiano sembravano taglienti come una lama.
«Non posso proteggerti se non liberi la tua anima da ciò che è futile. Devi permettere a ogni cosa di tornare come prima.»
La ragazza, sofferente, osservava la creatura. Ora capiva le sue parole. Se voleva restare fedele alla foresta e al suo guardiano, a tutto ciò che significava quella vita, non avrebbe mai potuto amare una persona, non avrebbe mai potuto concederle la supremazia.
«Rigetta questi pensieri, Elena. Torna con noi, torna con me. Lascia che io ti protegga da questo mondo.»
Per un momento, gli occhi dell’unicorno si fecero dolci come un tempo. In quell’istante la ragazza percepì dentro di sé tutta la sicurezza che quella vita le faceva provare. Era abbastanza per sottrarsi a un cammino nuovo e sconosciuto?
Elena accarezzò il collo dell’unicorno, affettuosamente.
«Tu mi chiedi di reprimere quello che provo, di tornare a rifugiarmi sotto la vostra protezione, di restare al sicuro da una vita complicata e piena di pericoli. Ma se io accettassi tutto questo, se io non mi confrontassi col vero mondo, non starei vivendo, sarei solamente schiava di un’illusione. Vi ho amati tutti, tanto, e mi avete aiutata a superare le mie paure. Ma è arrivato il momento nel quale imparerò ad affrontarle da sola. Se ci sarà una persona al mio fianco, con la quale combatterle assieme e non sulla quale scaricarle, forse, le avversità della vita varranno comunque la pena di essere vissute.»
L’unicorno rimase immobile.
«Grazie...» sussurrò la ragazza, baciandogli il muso.



(8) Due ragazzi passeggiavano all’alba in una verdeggiante pianura.
Si tenevano per mano, mentre osservavano i campi rigogliosi che avrebbero concesso uno dei migliori raccolti degli ultimi anni.
Alla luce del sole i capelli di lei sembravano dorati, e gli occhi di lui risplendevano come le acque di un fiume.
Si guardarono per un solo istante. Lei accennò un sorriso, lui finse d’imbronciarsi. In fine si avvicinarono e si baciarono fra quel turbinio di luci.
Erano pronti ad affrontare la vita, memori delle sua difficoltà, mentre da una lontana foresta a nord, una bianca creatura serena, un destriero candido con un corno affusolato, concedeva la sua benedizione a quei viandanti della vita terrena.


Fine

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