13 mar 2016

Il fantasma nero

La storia di oggi sarà speciale per più motivi: il primo e più importante è che si tratta di una storia nuova che ho scritto in questi giorni, e non di una vecchia ricorretta. Non scrivevo una storia breve da circa sei anni, da quando l'ultima si era gradualmente e incontenibilmente trasformata in un romanzo di seicento pagine (ancora incompleto). Si tratta poi del primo racconto breve appartenente alla categoria horror (anche "Tra le pieghe del sipario" appartiene a quel genere ma è un libro) cosa che lo rende assolutamente inadatto ai bambini e dallo stile particolare, ancor più a causa delle brevità della storia e la conseguente natura sperimentale. 
Sperando di non avervi spaventato troppo (o forse sì) vi lascio alle parole del racconto: 

Il fantasma nero


 Era una notte buia e tempestosa. Di quelle classiche, da racconto. Un pensiero che portava il piccolo Anselm a sorridere.
Non sapeva perché, ma era sempre stato così. Quel che atterriva gli altri bambini lo incuriosiva, elettrizzava. Come se i misteri tenebrosi non fossero altro che un’avventura, e del miglior genere.
Anselm era al calduccio sotto le coperte. La mamma ne aveva aggiunto un’altra la notte prima a causa del freddo pungente. Il piccolo la stringeva fra le mani, tirandola su fino a coprirsi la bocca, mentre gli occhi osservavano prima a destra, poi a sinistra; ancora e ancora.
I lampi attiravano il suo sguardo verso la finestra, ogni volta, ma Anselm era convinto che ci fosse qualcosa di più interessante nella sua stanza. Un mostro, magari, che sfruttava la tempesta per nascondersi meglio.
Era un brividino lungo la schiena a suggerirglielo. Lo stesso brividino che lo portava a puntare gli occhi verso qualsiasi stranezza. Come quel mucchio contorto di tentacoli sulla sedia!
Ah, no. Erano solamente i suoi vestiti...
Allora quel diavoletto cornuto acquattato di fianco alla porta!
Niente. Era il suo pallone da calcio con un paio di calzini spaiati sopra…
Forse quel serpente che strisciava sul pavimento?
No, uffa… come c’era finito lì il boa della mamma? Un boa vero sarebbe stato il massimo, ma quella era solamente una noiosissima sciarpa.
L’armadio vibrò improvvisamente, attirando all’istante gli occhietti di Anselm.
Non lo aveva immaginato. Non era possibile.
L’armadio vibrò una seconda volta e il piccolo sorrise sotto la calda coperta. Era una conferma.
Il freddo lo avvolse innaturalmente. Per lui fu come uno strano abbraccio.
Non lo vide a un primo sguardo. Non era possibile. Ma quando se ne accorse i suoi occhi si spalancarono.
Essere elettrizzato non rendeva giustizia alla sua emozione.
«Ciao. Io mi chiamo Anselm e tu?» 
La creatura rispose.

Sei anni dopo.

Il giovane Anselm passeggiava per strada. Era uno dei pochi ragazzi dai capelli corvini, corti e disordinati.
Le sue cuffie riversavano musica metal a tutto volume direttamente nelle sue orecchie, mentre i grigi occhi distratti osservavano a mala pena i dintorni.
Un ragazzo sullo skate, biondo come tanti, lo superò assetandogli uno schiaffo dietro il collo, poi emise una grassa risata.
Anselm si accorse subito di non conoscerlo e sorrise. La batteria in quel pezzo era una bomba e non poté fare a meno di fingere di suonarla ritmicamente, come se stringesse saldamente le bacchette.
Lo skater sfrecciò sulla strada in quel momento e lo skate volò lontano, come sospinto da un ciclone. Il proprietario impattò a terra nella più totale incomprensione e il suv di passaggio non fece in tempo a frenare.
Anselm continuava a muovere la testa a ritmo. La musica metal copriva le urla della signora che aveva appena assistito all’incidente.
Dio, quanto amava quella canzone.

Anselm superò la soglia di casa. Fece a mala pena in tempo a togliersi le cuffie. Sua madre era già di fronte a lui, coi bei capelli biondi ondulati e il sorriso sulle labbra.
«Com’è andata oggi, tesoro?»
Anselm l’abbracciò affettuosamente.
«Benissimo. La lezione di storia è stata paurosa!»
Sua madre lo scrutò con aria volpina.
«E quella di matematica?»
«Paurosa anche quella.»
Era chiaro che la stessa parola, ora, avesse riacquisito il proprio significato originale. Lo sguardo furbo di Anselm non faceva niente per nasconderlo. 
Sua madre scosse la testa e gli scompigliò i capelli, come se potesse fare la differenza, per poi dirigersi in cucina.
«Mentre tornavo a casa c’è stato un incidente.» la informò Anselm, avviandosi verso camera sua.
«Davvero?» chiese sua madre, mentre si assicurava che i fornelli non bruciassero il pranzo.
«Già. Hanno investito un ragazzo.»
Anselm cominciò a salire le scale.
«E ora come sta?»
«Credo sia morto.»
Sua madre portò istintivamente una mano di fronte alla bocca.
«Oh, povero caro.»   
La carne, ora, era cotta a puntino.

Othild arrivò il pomeriggio per studiare con Anselm. Lui le piaceva molto, ma non avrebbe saputo dire perché. Non era il ragazzo più bello, né il più alto. Era magrolino e aveva un nonsoché da maledetto, anche se sorrideva sempre. Forse era quello a piacerle, o il fatto che non sembrasse avere paura di nulla. Oppure, a intrigarla, erano le storie da brividi che le raccontava.
Era così seccante rimuginarci ancora. Le piaceva e basta. Perché doveva cercare di dare una ragione a tutto?
La camera di Anselm era così diversa dalla sua, con tutti quei poster da metallari, quegli strani pupazzi di mostriciattoli che non aveva idea di dove avesse comprato e quell’assurdo terrario vuoto, che il ragazzo le aveva confidato volesse riempire con un mamba nero, uno dei serpenti più velenosi al mondo.
«Perché non inizi con un serpente più tranquillo?»
Othild gli pose quella domanda di punto in bianco, come se ne stessero parlando fino a quel momento. Non era importante che lui non avesse avuto modo di seguire il percorso indipendente dei suoi pensieri.
«Perché sono noiosi.»   
Non aveva tentennato neanche per un secondo. A volte questo la infastidiva. 
«Ma almeno non possono ucciderti.»
Si ritrovò gli occhi di Anselm di fronte ai suoi. Si era avvicinato rapidamente e silenziosamente. La ragazza si trattenne a stento dall’emettere un singulto.
«È proprio per questo che sono noiosi.»
Il ragazzo le sorrideva perfidamente. Othild percepì crescere l’imbarazzo e l’agitazione, ma lui le rimescolò l’emozioni rifilandole un bacio a stampo, che la mandò letteralmente in tilt.
«Perché lo hai fatto?» strepitò mentre Anselm tornava al suo posto, impassibile.
«Era quello che volevi, no?»
Il viso di lei divampò, non avrebbe saputo dire se per rabbia o vergogna. Probabilmente entrambe.
«E tu che ne sai?»
«Me lo ha detto un amico.»
Odiava quella nonchalance e questo la portò a rispondere per cercare di ferirlo:
«Tu non hai amici.»
Nessuna reazione. O almeno non quella desiderata. 
«Se vuoi te lo presento.»

Othilt non credeva a quel che stava facendo. Aveva accettato di tornare di notte, di nascosto, a casa di Anselm. Aveva aspettato che i suoi genitori le augurassero la buonanotte e poi era uscita dalla finestra. Non lo aveva mai fatto prima.
Sotto casa aveva trovato Anselm, con una felpa e il cappuccio alzato sui capelli arruffati.
«Ti avevo detto che ti avrei raggiunto io. Che non avevo paura di farlo da sola!» lo rimproverò seccata.
Lui le prese la mano senza scomporsi.
«Mentivi.»

I due ragazzi passeggiavano per le strade della cittadina in piena notte. Anselm sorrideva come se fosse una splendida giornata e Othild si ritrovò a farlo a sua volta, anche se la testa le continuava a ripetere che era una stupida. Era una versione distorta di un appuntamento? Perché si sentiva felice?
«Va bene anche così.» le disse Anselm all’improvviso.
«In che senso?»
«Non sei obbligata a venire a casa, né a conoscere il mio amico.»
Lei inarcò le sopracciglia chiarissime.
«Perché mi hai fatta uscire a fare, allora? Se i miei lo scoprono sono morta.»
Anselm si fermò, piazzandosi davanti a lei.
«È questo di cui hai paura?»
Othild non capì la domanda, ma si limitò ad alzare le spalle. Anselm si guardò attorno.
«Posso fartelo conoscere anche qui. È sempre con me.»
«Adesso sei tu a farmi paura!» provò a scherzare la ragazza.
Un brivido gelido l’avvolse, portandola a sfregarsi istintivamente le braccia.
«Che diavolo di freddo!» 
Anselm la strinse a sé, riscaldandola.
«Ti riporto a casa.»

«Non è antipatica.»
Anselm, sdraiato sul letto, parlava da solo. Erano le cinque del mattino e non aveva chiuso occhio.
«Questo lo dici tu. E comunque non puoi farci niente.»
Lo sguardo del ragazzo si fece incerto.
«No, non ho paura. Se l’avessi smetterei di frequentarla.»
Decise finalmente di sdraiarsi sotto le coperte.
«Fai come ti pare.»

Othild si svegliò di soprassalto.
Aveva percepito un brivido attraversarla e ora che osservava la sua camera al buio aveva la terribile sensazione di sentirsi osservata.
Si ritrovò a respirare più forte, in preda all’agitazione. Attorno a lei non c’era niente, era sicura, ma quella sensazione non spariva, semmai incrementava, facendosi opprimente.
«Anselm, sei tu?» mormorò a malapena.
La sua speranza venne spezzata dal silenzio teso e la paura la vinse.
Othild si buttò sul letto, stringendosi nelle coperte a occhi chiusi, cercando un conforto che ogni rumore, anche il più innocuo, rendeva impossibile da trovare.
La tensione la stava uccidendo. Era tutta suggestione. Doveva semplicemente accendere la luce.
Tese la mano per cercare l’interruttore, senza trovarlo. Fu in quel momento che arrivò il freddo.
Othild ritrasse la mano e aprì gli occhi, istintivamente, vedendolo.
Il suo grido di terrore svegliò i genitori all’istante.

«No, oggi non penso verrà.»
La madre di Anselm l’osservava impensierita.
«Come mai?»
«Non è venuta neanche a lezione. Probabilmente sta male.»
Scorgeva qualcosa di strano negli occhi di suo figlio, forse era solamente stanchezza.
«Perché non provi a chiederglielo? Mandale un messaggio.»
«Non so se voglio conoscere la risposta.»

«Devi lasciarla in pace!»
Anselm era chiuso in camera. La musica metal rimbombava fra le pareti.
«Mi interessa, lo ammetto. Sei contento?»
Il ragazzo sbuffò seccato.
«Non è un capriccio!»
Il suo sguardo si fece quasi minaccioso.
«Ti conosco anche io...»
Un coro di voci eteree echeggiò dalle casse.
«No, non ho paura.»

Bussò alla porta ritmicamente e a occhi chiusi, condizionato dall’assolo di chitarra elettrica in cuffia.
Si accorse che la porta era aperta solamente quando la sua mano non poté impattarvi ancora.
Il padre di Othild l’osservava con le sopracciglia aggrottate. Gli stava dicendo qualcosa.
Anselm si tolse le cuffie.
«Che?»
«Cosa ci fai qui?»
L’uomo sembrava agitato e seccato al contempo. Il ragazzo gli sorrise cordialmente.
«Sono venuto a trovare Othild. So che sta male. Pensavo che un po’ di compagnia potesse farle piacere.»
Il padre della ragazza lo fissò dall’alto. Incerto.
«Potrebbe aiutare…»

Othild era sdraiata sul letto, con gli occhi fissi sul muro rosa della sua camera. Aveva i capelli platinati legati a treccia e la sua carnagione chiara ora appariva cerulea.
«Dal grido di stanotte non ha più detto una parola. Se si agita avvisami subito, devo fare delle chiamate.» 
Il tono del padre di lei era grave. Anselm si ritrovò da solo con Othild nel più totale silenzio.
Un orsetto con un bizzarro papillon arcobaleno era poggiato sul comodino. Il ragazzo lo prese fra le mani mentre lei continuava a fissare il muro. Gli occhi a bottone del pupazzo erano ipnotici. Chissà perché avevano scelto proprio il rosso.   
Anselm si sedette sul letto portando l’orso con sé. Lo poggiò fra le braccia di lei, che finalmente diede un segno di vita voltandosi a guardare il pupazzo.
Gli occhi le divennero lucidi e con un gesto rapido e secco lo lanciò lontano.
«So che lo hai visto.» le disse Anselm in quel momento.
Il respiro di Othild crebbe per l’agitazione.
«Non è facile, perché di giorno svanisce, mentre di notte è nero come un’ombra.»
Lo sguardo di lei era basso, il respiro sempre più forte.
«Puoi intravederlo unicamente quanto è molto vicino, di fronte a te.»
Anche Anselm si avvicinava sempre più a lei, parola dopo parola.
«Ed è solamente allora che apre gli occhi: quando sa che lo hai scorto.»
Si ritrovò inconsciamente a sorridere.
«Hai visto come sono? Non saprei descriverli, ma non è il rosso a rimanere impresso. È la forma distorta, che non è nemmeno una forma. È come se fossero diversi, nello stesso spazio, in più realtà.»
Anselm rise in maniera quasi impercettibile.
«Vedi? Non riesco a spiegarlo. Ma non ce n’è bisogno, perché tu sai di cosa parlo.»
Othild gli rivolse lo sguardo, i suoi occhi erano pieni di lacrime, che scivolavano calde sulle sue guance bianche.
«Sei stata fortunata. Di solito uccide chi ha paura. Ma sa che io ci tengo, a te.»
Anselm le diede un bacio a stampo. Lei non reagì.

«Certo che ha paura. Cosa ti aspettavi?»
Anselm strappò uno dei poster della sua camera con rabbia. Il ritmo della musica copriva ogni cosa.
«Non sono deluso!»
Il ragazzo puntò il dito verso il soffitto.
«Non sai quello che voglio. Non sono più un bambino.»
Spalancò gli occhi.
«No. Non lo farai. Non farlo!»
Il suo sguardo scattò verso la finestra. Istintivamente vi corse in contro, fermandosi a guardare fuori. Strinse i denti, poggiandosi una mano sulla fronte.
Qualcuno batté alla porta di camera sua con forza.
«Tesoro? Puoi spegnere la musica? È tardi.»
Anselm inspirò profondamente, poi sorrise.
«Certo mamma.»

Aneselm correva per le strade della cittadina, di notte.
Non sapeva come lo avrebbe fermato, ma doveva farlo. Non aveva paura, lui non aveva mai paura, era solamente un’avventura, anche se non si sentiva elettrizzato come da bambino.
Forse era preoccupato.
Corse ancor più veloce.

Entrò in camera di Othild dalla finestra. Era buia e silenziosa.
Si avvicinò al letto e udì il respiro di lei, regolare e profondo. Dormiva. Doveva essere crollata per la stanchezza, oppure i suoi genitori le avevano fatto prendere un calmante.
Era arrivato in tempo. Le diede un bacio a stampo.
«Ora ti proteggo io.» sussurrò.
Il coltello le attraversò la gola con un colpo secco e il sangue si riversò sulle coperte e sul cuscino. La ragazza aveva spalancato gli occhi azzurri spasmodicamente, ma senza riuscire a emettere una sillaba.
Anselm la osservava con un sorriso e il volto macchiato di rosso.
Percepì un freddo abbraccio.
«Avevi ragione.» mormorò al niente «Era solamente un capriccio.»  
Anselm estrasse il coltello del suo defunto padre dal collo sottile della ragazza e lo pulì sulla coperta. Diede uno sguardo all’orsetto con gli occhi a bottone che lo guardava da terra e poi uscì dalla finestra.

Passeggiava per le strade della cittadina, verso casa. Era una notte buia e tempestosa, Di quelle classiche, da racconto. Un pensiero che portava Anselm a sorridere. Non sapeva perché, ma era sempre stato così.
I tuoni naturali si legavano perfettamente alla musica metal eruttata dalle sue cuffie, tenute ben salde dal cappuccio della felpa, sollevato sui suoi capelli corvini e scompigliati. Gli occhi grigi erano leggermente arrossati, mentre parlava al vento impetuoso come a un amico, o qualcosa di più.
«È vero.» ridacchiò «Colpevole. Sai quello che voglio meglio di me.»
Scacciò l’aria bonariamente.
«Oh… smettila! Sempre la solita domanda. Dopo questa notte dovresti saperlo ancora meglio.»
Anselm sorrise perfidamente, guardando in avanti.
«No, non ho paura.»


Fine

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