24 apr 2016

Il mondo delle sferotte

Con la storia di oggi torniamo al genere comico/delirante di "Cactus alla ribalta". In questo caso il racconto è leggermente più lungo e tratta argomenti romantici, senza prendersi minimamente sul serio, specialmente perché ambientato in un mondo di sfere parlanti. Ma per conoscere ogni altro folle dettaglio del mondo delle sferotte, vi lascio alla storia: 

Il mondo delle sferotte


Care lettrici e cari lettori, il mondo in cui stiamo per avventurarci è talmente lontano e talmente diverso dal nostro da richiedere un avvertimento:
Se vi ritenete troppo seri o ci terreste a esserlo, la lettura è sconsigliata! Rovinerebbe la vostra reputazione.
E’ infatti difficile ascoltare, se non si è almeno un po’ matti, la storia di un magico mondo abitato da paffute sfere parlanti: le sferotte! No, non nel senso di sfere-rotte, ma di sfere-pienotte, colorate, con un visino, sentimenti, e udite udite, molto più sveglie dello scrittore di questa storia (ma potrebbero esserlo anche più di voi lettori, non dormite sugli allori).
Immaginate dunque questo piccolo mondo rotondo, coi suoi rotondi abitanti dai rotondi occhietti. Un bell’ordine a tutto tondo, non c’è che dire. Ma non dovete pensare che le sferotte siano tutte uguali, proprio no. Sono di tanti colori, dai più caldi ai più freddi; alcune piccine e alcune più grandi, alcune che quando rimbalzano fanno “Boing!” altre che fanno “Doing!” per non parlare di quelle che fanno “Poing!”.
Le sferotte vivono in grandi comunità sedentarie, anche se in passato, le sferotte preistoriche, praticavano uno stile di vita nomadico rimbalzante.
Nelle loro città regna la pace, ma non tutte le sferotte sono perbene, alcune si arrabbiano facilmente, altre sono incredibilmente dispettose e altre ancora fanno persino le pernacchie (un gesto ritenuto terribile, capace di far rimbalzare via piangendo le sferotte particolarmente sensibili). Tuttavia le sferotte, generalmente, amano divertirsi, e ignorano o perdonano quelle più antipatiche (solo in casi estremi si arriva a prenderle a sferottate nello sferetto, equivalente a un calcio nel nostro popò). Quando si divertono davvero tanto, poi, tendono a perdere l’equilibrio, e si ritrovano a: “rotolare”.
Le sferotte adorano festeggiare, ogni scusa è buona per celebrare qualcosa, che si tratti del giorno di nascita della sferotta che sapeva rimbalzare sull’acqua, o delle felicitazioni per il centoventesimo balzello della sferotta più piccola.
Cibandosi per lo più di zucchero, alla loro tradizione culinaria appartengono numerosissimi dolci. L’antipatia di una sferotta, talvolta, deriva proprio da carenze di zuccheri.
Sebbene la loro comunità preveda la necessità di molti lavoratori e sferiche figure professionali, il mestiere ritenuto di più alto prestigio è, universalmente, il cuoco! Nello specifico il titolo di: Gran Maestro Glucosio, ruolo che coincide col comando (politica è cucina vanno di pari passo. Un elettore nutrito male non ti concederà mai il suo voto una seconda volta!).
Costui guida le sferotte durante la preparazione dei piatti in azioni ammirevoli. È infatti necessaria grande forza e coordinazione. Un aiutante in cucina dev’essere capace di spingere, rotolando, recipienti pieni di zucchero e altri ingredienti, o rimbalzare vigorosamente sugli impasti per stenderli meglio (provate voi a cucinare un dolce senza mani).
Ma smettiamo di disquisire dell’intera cultura delle sferotte prima che faccia notte, poiché è arrivato il momento di gettarci senza paura (o almeno non troppa) in questo pazzo mondo, e seguire alcuni dei nostri amici rimbalzanti:

«È arrivato il giorno, finalmente!» Gan aveva rimbalzato due volte con un gran sorriso, si era appena alzato dal cuscino gommoso sul quale dormiva, fantasticando su quella splendida giornata. 
Era un giovane sferotto di belle speranze, colorato di un chiaro azzurrino e dall’espressione buona. Un ottimista, che rimbalzava qua e là senza pensare ai pericoli, a un passo dal conquistare la felicità.
Cosa gli mancava? Trovare una giovane sferotta di belle speranze come lui.
Il suo entusiasmo mattiniero, dunque, era ben giustificato, dato che il giorno precedente aveva incontrato Mes, di un bel giallo vivace, spontanea e allegra. Lo aveva colpito, decisamente, e non solo perché avevano accidentalmente impattato l’uno contro l’altra!
Superato lo stordimento, infatti, i due si erano osservati intensamente, e lì Gan aveva subito il secondo colpo.
No, no, era fisico anche questo.
La bella Mes, dopo lo scambio di sguardi, era scoppiata a ridere, seguita a ruota da Gan. Rotolare era stato inevitabile, portandoli a un secondo impatto.
Non si conoscevano e già ridevano assieme. In seguito si erano semplicemente scusati e presentati, per poi salutarsi, ma durante il ritorno a casa, Gan, non faceva che pensare a lei, col piccolo cuore in preda a pulsazioni zuccherine. Era stato colpito, sì (e almeno questa volta non fisicamente).
Quel dì, l’affascinante sferotto azzurro, era pronto a darsi da fare: avrebbe ritrovato Mes e l’avrebbe invitata alla festa del grande dolce. 
All’evento mancavano pochi giorni, il Gran Maestro Glucosio dirigeva i lavori da settimane, avrebbero mangiato come matti! Quale occasione migliore da condividere con una sferotta?
Qualcuno bussò alla porta con la fronte sferosa e Gan smise di sognare a occhi aperti.
Si adoperò subito per rimbalzare sul meccanismo di sblocco e consentire all’ospite di entrare.
Si trattava di un altro sferotto maschio, bello grosso e tinto di verde scuro, con dei cerchiolini più chiari attorno agli occhi. La sua espressione burbera divenne rapidamente beffarda.
«Stai ancora pensando a quella Mes, vero?»
«Era così gialla!» sospirò Gan.
L’altro alzò gli occhi al cielo.
«Le gialle sono difficili da conquistare, vecchio marpione azzurro!» sentenziò, rotolando dentro casa «Non le ferma nessuno. Sfuggono! Cercati una sferotta rosa come la mia Val, sono molto più dolci.»
(le sferotte rosa, secondo studi degli scienziati sferotti, hanno in circolo molto più sangue zuccherino)
«Jim, amico mio, tu non sai di che parli. Ti serve una come Val per compensarti, considerato quanto sei burbero, ma io ho bisogno di acchiappare questo spirito libero.»
Jim si mosse a destra e sinistra in uno sferoso no.
«Non si posso acchiappare, ti dico.»
Gan rimbalzò due volte.
«Allora correrò assieme a lei!»
I due amici continuarono a battibeccare a lungo, mentre Jim rubacchiava dolcetti qua e là e Gan sembrava non farci caso.
Quando ne ebbero abbastanza rimbalzarono fuori casa, per dirigersi verso un’altra abitazione.
«Val! Esci, su!» Strepitò Jim da fuori, burberamente.
Una voce molto più dolce, dall’interno, rispose:
«Meglio che ti porti un pasticcino, amore!»
Jim sghignazzò, cercando l’approvazione di Gan.
«Funziona sempre!»
(secondo altri studi scientifici, le sferotte verdi sono meno zuccherose, e per sopperire all’irritazione o antipatia devono nutrirsi più frequentemente)
Dalla porta sbucò una piccola sferotta rosa, che rimbalzava in maniera aggraziata spingendo un dolcetto.
Jim lo divorò avidamente, per poi strofinare delicatamente la fronte sferosa su quella di lei (un gesto da sferotti innamorati).
«Ha fatto effetto subito!» gioì Val.
Jim annuì beffardo.
«Rimbalziamo fino alla piazza?» propose Gan con fare impaziente. 
«Tanto ora non la trovi, la tua Mes.» rotolò Jim, sfiorando Val. Questa provò a spingerlo scherzosamente di rimando.
«Piantala scemo!» rise «Magari la trova, chi può dirlo?»
Rivolse un sorriso a Gan e lui ricambiò. Meno male che c’era lei a compensare Jim!
Il terzetto, dunque, si diresse verso la piazza, punto di ritrovo per sferrotti dove si tenevano gli eventi più importanti, come la festa del grande dolce (Jim era famoso per i suoi spintoni, atti a cercare di assaggiarlo per primo).
Appena arrivati, Gan cominciò a guardarsi attorno.
«Se vuoi ti aiutiamo.» propose Val «Ci hai descritto Mes talmente nel dettaglio che non possiamo sbagliarci!» aggiunse divertita.
Jim, nel frattempo, squadrava i banchi di dolcetti della piazza.
«Non preoccupatevi!» sorrise Gan «Porta pure quel burbero a inzuccherarsi un po’, me la caverò da solo!»
Jim partì a comando.
«Tu sì che sei un amico!»
E Val lo seguì sconsolata.
Lasciato a sé, Gan, si diede da fare. Rimbalzò per tutta la piazza più e più volte, osservando con attenzione. Non voleva fare brutte figure, portando a girarsi la sferotta gialla sbagliata.
Dopo aver sbagliato tre volte, lo sferotto azzurro cominciò a perdere le speranze. Oltretutto, a ogni giro, s’imbatteva nell’espressione beffarda di Jim.
Mentre con lo sguardo lanciava saette all’amico, con la coda dell’occhio colse una gialla sferotta saltellante. Lasciò perdere ogni cosa per rimbalzare verso di lei, doveva essere Mes!
Purtroppo rimase colpito. Già… cominciate a capirlo: fisicamente. Ma non da Mes, non da una sferotta, bensì da uno sferotto scurissimo, più piccolo di lui ma compatto.
Jim e Val erano accorsi.
«Tutto bene?» aveva chiesto subito la sferotta rosa, preoccupata.
Gan sentiva ancora i capogiri, mentre lo sferotto nero si stava già riprendendo.
«Ehi! Perché gli sei andato addosso?» lo aggredì Jim, scorbutico.
L’altro non rispose, si limitò a fissarlo con aria di sfida.
«Guarda che ti faccio rimbalzare via!» aggiunse Jim.
Gan si riprese in quel momento.
«Calma Jim, calma.» esordì «Non deve averlo fatto apposta.»
Si accorsero solo in quel momento che lo sferotto nero aveva due striature violacee verticali agli occhi. Questi si avvicinò a Gan, osservandolo con asprezza.
«Perché seguivi la mia Mes?» domandò con un filo di voce.
«La… la tua…?»
Gan si ritrovò a tentennare.  Lo sferotto nero si rifece avanti.
«Devo chiederle di venire alla festa del grande dolce con me. Non ti voglio avere fra le sfere, quindi rimbalza via!»
Gan era ancora confuso.
«Ricordati il mio nome: io sono Lub, e se continui a cercare Mes sarò quello che ti prenderà a sferottate nello sferetto!»
Jim esplose:
«Chi è che prendi a sferottate nello sferetto, sfera a strisce?»
Val era terribilmente preoccupata. Gli occhietti di Lub si iniettarono di odio, aspettò un istante, come se non sapesse cosa dire, poi aprì la bocca ed emise una sonora pernacchia. Con espressione gelida rimbalzò via.
Val era scoppiata a piangere.
«Ci ha fatto una pernacchia!»
Jim borbottò fra sé e sé:
«Se lo ripesco, quello, non avrà neanche più uno sferetto da farsi prendere a sferottate…»
La giornata non era stata positiva come sperato, e Gan, rientrato a casa con gli amici, provava inquietudine. 
Ormai si era convinto che Mes sarebbe stata la sua sferotta, ma quel Lub l’aveva chiamata “La mia Mes”. Aveva già un suo sferotto?
Eppure aveva detto di doverla ancora invitare alla festa del grande dolce. Nel caso fosse la sua sferotta sarebbe stato scontato, tutti gli sferotti innamorati ci andavano assieme.
«È solo un pallone gonfiato!» disse Jim mentre discutevano. 
Val aveva ancora gli occhietti lucidi.
«Quello sferotto non ha zucchero nelle vene!»
(altri studi scientifici hanno dimostrato che gli sferotti neri sono quelli con meno zucchero nel sangue in assoluto, possono nutrirsi poco, ma questo li rende spesso i più antipatici e maleducati. Secondo le riviste di moda sferotta, poi, la bellezza di uno sferotto deriva dalla sua rotondità, è così che se eventuali pois abbelliscono, altre forme, come delle strisce, non sono apprezzate, poiché turbano l’equilibrio sferico)
«Ma certo!»
Gan saltò con forza, illuminato.
Senza che Val o Jim avessero il tempo di capire, si fiondò fuori casa con fortissimi balzi.
Lub doveva essere solamente un altro pretendente di Mes, non era il suo sferotto. Lo aveva minacciato per tenerlo fuori gioco, ma non avrebbe vinto. Gli bastava arrivare da lei prima di lui!
Restava un solo modo per scoprire dove si trovasse: parlare col Gran Maestro Glucosio. Lui era a capo della città, e custodiva il registro coi nomi di tutte le sferotte e le loro abitazioni.
Gan, con un po’ d’insistenza, riuscì a farsi ricevere. Il Gran Maestro Glucosio si chiamava Bos, ed era uno sferotto imponente, bianco candido e con due baffi zuccherosi (già, una sfera coi baffi).
Ascoltò la sua richiesta con pazienza e attenzione, per poi rispondergli:
«Non posso aiutarti. No no, no no no no no. Proprio no.»
Gan non fece in tempo a ribattere.
«Sarebbe una violazione della privacy. Hai idea di quanti elettori infuriati vedrei rimbalzare sotto la mia finestra, poi? Non basterebbe neanche un grande dolce a calmarli!»
Lo sferotto azzurro decise di non demordere e di fare ricorso alla persuasione:
«Sottovalutate la vostra abilità, Maestro!» sorrise adulatorio «Non ho mai assaggiato dolci così buoni, prima che veniste eletto!»
Bos strinse gli occhi come fessure, osservandolo dall’alto in basso, scuotendosi sferosamente.
«Tu mi piaci figliolo!» sorrise «Che male può esserci a fare un favore a un ragazzo così educato e di buon gusto?»
Era stato più facile del previsto…
«Vado a consultare il registro!»
(dopo anni e anni di pratica le sferotte hanno imparato a scrivere, incidendo con piccole punte mosse abilmente con la bocca)
C’era riuscito! Gan non stava più nella pelle! Il Gran Maestro Glucosio in persona gli aveva dato la sua benedizione! Mes era sua, altro che quello stupido di Lub!
Lo sferotto azzurro rimbalzava rapidissimamente per i sentieri cittadini, fino a raggiungere la casa indicatagli da Bos.
Si fermò un attimo, col fiatone, e proprio in quell’istante una potentissima sferottata prese il suo sferetto.
Auch!
Gan girò su se stesso, dolorante, e vide Lub. Era stato lui, dannata sfera a strisce!
«Ti avevo avvisato!» gli ringhiò contro «Ora farò la mia proposta a Mes e ti metterò fuori gioco!»
Con qualche rimbalzello Lub si avvicinò alla porta e bussò con la fronte sferosa, mentre il povero Gan girava ancora su se stesso, dolorante.
Mes aprì, mostrandosi. Era giallissima come sempre.
«Oh… sì?»
La sferotta guardò Lub come se non lo avesse mai visto.
Lo sferotto nero, improvvisamente, appariva terribilmente impacciato. Sui lati della sua sferosità si erano accese due sferette rosse per l’imbarazzo.
«Ehm… ciao! Io… io sono… so…sono quello che l’altro giorno hai aiutato mentre...»
Mes non lo fece finire di parlare, aveva notato in lontananza quell’affascinante sferotto azzurro.
Con rapidità superò Lub in un balzello, raggiungendo sorridente Gan.
«Tu sei quello contro cui ho sbattuto ieri!» esclamò divertita.
Gan provò a contraccambiare il sorriso, per quanto dolorante.
«S…sì! Sono io!»
La sferotta rotolò all’indietro con una risata.
«Non pensavo che ci saremmo rivisti così presto!» 
«Che coincidenza… già!» sorvolò Gan.
«Piuttosto…» riprese Mes «Fra pochi giorni c’è la festa del grande dolce, vorresti venire con me?» concluse con una smorfia dolce.
Gan sbarrò gli occhi.
Per la sfera che sapeva rimbalzare sull’acqua! Era un miracolo!
«Certo! Certo! Certissimo! Sì! Ecco… sì!»
I due scoppiarono a ridere assieme, rotolando l’uno contro l’altra. Avrebbero continuato a parlare per ore e ore, presi dall’entusiasmo, scoprendo un sacco di cose che li accomunavano.
La prima cosa che li accomunava era che si erano entrambi dimenticati di Lub.
Lo sferotto nero, impalato come uno stoccafisso, concluse la sua frase quando la porta si richiuse di fronte alla sua faccia.
«…lo prendevano in giro per le sue strisce…»
Una lacrimuccia gli ruotò attorno all’occhio. Poi lo sferotto rotolò via, lentamente. Non era divertito, si stava lasciando scivolare.

Passarono quei pochi giorni e arrivò la festa del grande dolce.
Bos aveva ultimato i preparativi, e il dolce sembrava il più bello e imponente che si fosse mai visto.
Jim stava spingendo sferotte di tutte le taglie e colori.
«Devo avere quel dolce!» gridava mentre una vena zuccherosa pulsava sulla sua fronte sferosa.
Dietro di lui, una Val imbarazzatissima e coi lacrimoni chiedeva scusa agli infortunati, ma in risposta riceveva solamente pernacchie, poverina.
Poco più lontano, due sferotte stavano vicine. Lui azzurro, lei gialla. Sorridevano e strofinavano delicatamente le fronti sferose.
Era già possibile immaginare gli sferotti che sarebbero nati un giorno. Tutti verdi! Di sicuro Jim li avrebbe obbligati a chiamarne uno come lui, ma questa, è un’altra storia!

In un angolo della festa, uno sferotto nero si stava ingozzando a suon di fette del grande dolce, per lenire la tristezza. Aveva mangiato così tanto che si stava facendo grigino, esaltando le striature violacee che non piacevano a nessuno. O forse, non a tutti…
Una sferotta lillà lo stava osservando, due triangolini rossi le adornavano gli occhietti.
Decise di avvicinarsi.


OO FINE OO
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20 apr 2016

Io non sono qui

Il 15 di questo mese presso il Centro di Produzione per lo Spettacolo "Intrepidi Monelli" si è tenuto un evento chiamato "ArennerA Open Stage" durante il quale si sono esibiti vari artisti e creativi. 
Ha partecipato anche "We're All Mad", l'associazione culturale alla quale appartengo, con un monologo teatrale scritto da me ispirandosi al lavoro fotografico di mia sorella Daniela Serpi e interpretato dall'attrice Valentina Casula
Allegherò al testo le foto proiettate durante l'evento e a fine post il filmato dello stesso, per consentirvi di entrare meglio nell'atmosfera onirica del pezzo.
Come ho spiegato prima dell'esibizione, questo monologo cerca di rappresentare i pensieri di una donna defunta, uno spirito che non trova più il proprio compagno, come se fosse svanito. Il tempo ha indebolito la sua memoria, rendendola sempre più confusa e spaventata. Nonostante questo, attraverso i suoi sentimenti, emergerà che il suo unico desiderio è ricongiungersi al proprio amato, quale che sia il costo. 
Vi lascio al testo e le foto:

Io non sono qui


Io non sono qui.
Non più, non col mio corpo.
Istanti della nostra vita mantengono intatto un flebile ricordo, sussurrato alla mia mente, smarrita, confusa.


La nostra casa, la nostra casa meravigliosa è il primo frammento. Ora, sono macerie.


Sento i tuoi passi, cammini fra le stanze, mi raggiungi. Reggi un lume candido e mi guardi.
Vuoi che ti segua, lo so, ma sparisci dietro un angolo. Non ti vedo. Mi manchi.


Ti aspetto ovunque posso.


Il tempo scorre indefinito. Colgo ogni secondo, d’improvviso passa un anno, un secolo, o è stato un giorno?
Non capisco.


La testa sembra esplodere e grido, grido, come se potessi sentirmi, correre da me e stringermi forte, lenire la pazzia che mi ha già vinta.


Non giungi mai. Ti percepisco. M’inginocchio e piango. Ti supplico. Dove sei?


Ti vedo lontano. Sono ricordi, sempre ricordi, non sei reale, ma lo dimentico finché non provo a sfiorarti


e il tuo volto si distorce, freneticamente.


Tutto si sfoca, tu, io,


i nostri contorni.


Cerco uno specchio, lo guardo e ricordo:
Io non sono qui.


Le sbarre non mi contengono,


la mia prigione è per te, la reminiscenza di noi, ti vincola a non sfuggire. Ma non ho forze.


Non vedo più il tuo volto. Lo conosco. Non posso perderlo. Ti prego. Voglio vederlo ancora. No.


Respiro. Chiudo gli occhi. Mi calmo.
Funziona. Funziona sempre.


Ecco. Sei di spalle. Ma sei tu. Vorrei cogliere i tuoi lineamenti nell’ombra. Non posso.


Sono di spalle anch’io, al muro opposto, e quella distanza è incolmabile.
La sento. Sento la rassegnazione. Un altro frammento perso.


E’ come una scintilla, un fulmine che guizza per la mente e porta i miei occhi a spalancarsi.


La tua immagine. La tua sofferenza. L’unica che vorrei dimenticare, che mi tormenterà a ogni perdita, finché non sarò io a svanire.


Tendo la mano verso di te, nella speranza di raggiungerti. Di placare il dolore.
Ti cerco in alto. E se sbagliassi? Non mi importa.
Tu non sei qui, e ripeterò, finché non sarà reale, che anch’io non sono qui.


Donami un luogo dove saremo ancora insieme.
Io non sono qui. Io non sono qui. Io non sono qui. Io non sono qui.
Io. Non sono. Qui.

Fine 

Interpretazione di Valentina Casula

Foto dell'evento - Rodolfo Serpi











11 apr 2016

La volpe alla caccia

Dalle vecchie storie del blog, oggi la spolverata tocca a "La volpe alla caccia". Probabilmente si tratta del mio esperimento di stile più particolare, siete avvisati. Possiede elementi della favola e del racconto drammatico. Non è adatta ai bambini.
Vi lascio alle parole del racconto:  

La volpe alla caccia


E’ una notte fredda, nella tana. La pioggia, all’esterno, batte incessantemente. Si odono tuoni che generano terrore, favorito dai lampi accecanti.
La piccola volpe si rannicchia sul fondo del rifugio. Trema per il gelo e per l’umido. Trema per la tempesta.
È sola, con pochi mesi di vita alle spalle.
Dov’è la madre amorevole, che dovrebbe scaldarla col morbido manto?
Dov’è il saggio padre, che dovrebbe ergersi all’ingresso della tana?
Dove sono fratelli e sorelle, che dovrebbero stare vicini e confortarsi?
Persi nelle ombre.
Il piccolo non sa, ma li chiama a sé con un guaito.
Risponde un altro tuono, rabbioso.



Alla notte segue il giorno, vuoto. Non basta a riempirlo il quieto cielo. La solitudine lo consuma freddamente, poiché è un gelo che i raggi del sole non sono capaci di scacciare.
La terra fangosa sporca il manto della piccola volpe. Il vento, impetuosamente, l’ha gettata nel profondo della tana, addosso al suo corpo. Il rosso quasi non si scorge. Uno scricciolo dal muso mogio.
Si trascina avanti, guarda attorno per una speranza costantemente delusa dal nulla, per l’assenza dei versi della famiglia dispersa. 
Il sole l’acceca in un istante. Ricorda il lampo. Tremiti.



Fame.
Il tremore perde la priorità.
Fame divoratrice. Consuma il vuoto dello stomaco con le sue fitte beffarde. Avvisa se stesso che, senza ciò che vuole, si divorerà da solo, come un ingordo abisso senza fondo.
Il corpo si mobilita per cedere al ricatto, ma il tempo è sufficiente?
L’istinto domina e non si fa domande. Energie, incredule da sé della propria esistenza, si fanno avanti; semplice segnale che son le ultime, quelle del successo insperato o del dramma inevitabile.



Creatura innocente trasformata in cacciatore famelico. Per necessità, non per diletto. Abile, si avventa dal nascondiglio erboso contro il coniglio.
Quando la fitta è forte, risucchia il lombrico dal terreno.
Se non vista, coglie lo scarto del cacciatore lupo, quel che rimane della carogna che lo ha saziato.
Lo stomaco reclama senza distinzioni, e il corpo, schiavo, non può che ubbidire.



La piccola volpe, sola, mesta, ma risoluta, si abitua al giornaliero labirinto di pericoli che è la sopravvivenza.
La tarda notte guaisce per gli incubi sui perduti, ma dall’attimo che segue il brivido quotidiano a quello che lo riaccoglie, una maschera inflessibile l’avvolge.  



Adulta in poco tempo, anche nel corpo. Lo era già nella mente, per il peso della responsabilità di sé.
Cerca la strada da percorrere, quella senza guida, dove le domande son mille e, risposta, non è che una parola, poiché non esiste.



Ma in una casa aspra e selvaggia al nome di foresta, avanza una creatura incomprensibilmente innaturale, che la natura ha generato.
La reggono due sole zampe, poiché il resto si innalzi verso il cielo.
Mammifero senza manto, cacciatore senza artigli, sapiente senza cognizione.
La sua mente non concepisce o accetta l’ordine delle cose, provocando costanti ribellioni senza successo.



Questa bestia geniale o folle, fuggita da colei che l’ha generata, le fa ogni tanto visita per mostrarle quel che ha scoperto. Spesso con volontaria crudezza, una vendetta per le involontarie sofferenze subite.
Agisce caoticamente. Crea il proprio ordine spazzando via l’unico possibile. Qual è il suo destino, se non autodistruggersi e tornar parte dell’equilibrio spezzato?
Ma questo è il futuro, distante. L’uomo ora è nella foresta, a farsi beffe dell’imbattibile. Un cacciatore famelico, non per necessità, ma per diletto, che incrocia l’adulta volpe. 



Una dozzina d’individui a cavallo, che vorrebbero far soma alla natura; coi cani al seguito, i migliori schiavi dell’uomo; in abiti colorati e distinti, a quali solamente loro sono capaci di trovar significato; sono pronti a dare inizio al loro gioco: rincorrere una preda in superiorità numerica, con strategie, trappole e quant’altro.
Per onestà, la bestia si vede concesso, dalle bestie civilizzate, il vantaggio di poter scappare.



Un labirinto senza fuga, è l’obiettivo. Non c’è spasso, se la preda non dura.
Tutto è studiato e senza fallo, fino a domandarsi che sarebbe accaduto, al nobile uomo, se madre natura gli avesse concesso le stesse possibilità che, lui, dona ora alla volpe.
Irriducibile, gli sfugge solo la mancata onniscienza.



Uno squillo di tromba.
La volpe drizza le orecchie. Quel suono non lo ricorda.
È furba, non sciocca, la sua mente pensa al pericolo.
Nascosta, attende di capire meglio.



Gli uomini spronano i cavalli con affettuose tallonate sui fianchi. Fanno partire i cani rabbiosi e sbavanti, addestrati con istruttiva violenza. Tutto procede alla perfezione. Restano da stimare i tempi e l’eroico vincitore della giornata.



Corrono a perdifiato, con capacità e tenacia, resistenza e destrezza. Quanta abilità nelle bestie da trasporto del cavaliere, che si preoccupa d’impartir comando, restare in sella e specialmente: non far cader il cappello.



Dal suono sconosciuto si passa al trambusto più forte: cani abbaianti, cavalli scalpitanti e il loro peso.
La volpe ascolta. Coglie che son tanti, che si avvicinano, e che se cercano lei, la fine, è il destino più probabile.



I cani seguono un traccia d’olfatto, un senso affinato, accurato come uno sguardo.
Sanno com’è la loro preda senza scorgerla. Ma anche la volpe coglie un odore familiare, simile a un altro, e indaga le discrepanze per il vantaggio che possono concederle.



La volpe scatta in avanti, fuori dal nascondiglio, proprio quando i cani si fanno vicini.
Corre in direzione mai osata.
Serve a poco temere la morte dinnanzi a sé, quando questa t’insegue alle spalle. Sempre che la morte sia capace di morire a sua volta, scontrandosi con se stessa allo scansarsi della volpe.



I cani seguono la traccia anche con la volpe dinnanzi. Lei si guarda alle spalle un solo istante.
Più di venti, furiosi. Il numero non conta, sono pochi. Uno solo basterebbe ad abbatterla, ma pochi restano, nella sua mente consapevole.



I cani sbavano e ansimano, ma continuano a correre. La fatica è un semplice stato, non un obbligo a fermarsi.
La volpe prosegue ritta.
I cavalieri coraggiosi, addietro di metri e metri, si godono la scena. Il cane di chi donerà la vittoria al suo illustre padrone?



Perché la volpe non devia? Non era un animale furbo?
Così il confronto non sussiste. Verrà presa e sbranata.
Dovrebbe nascondersi o cambiare percorso nella speranza, inesistente, che l’olfatto smetta di scovarla.
La volpe va ancora ritta, coi cani a un passo dall’esserle addosso.



Un ululato.
Occhi brillanti e chiari osservano da dietro gli arbusti.
Sbavano anche le loro fauci, ma non per l’inseguimento a vuoto di una preda che sarà sottratta. Sbavano per una fame vera, alimentata da giorni di digiuno.
Il branco non attende oltre. Le prede sono fisicamente inferiori. Venti lupi non hanno timore di avventarsi contro dei poco più numerosi cani.



La volpe, furba, devia ora, quando ha un senso.
I lupi massicci sbattono a terra i cani, gracili, rispetto a loro, abituati ad azzuffarsi per il cibo, per la caccia di un animale snello, non per sopravvivere.
Gli uomini a cavallo osservano il raccapricciante spettacolo, e grazie all’intrepida distanza fan marcia indietro. Sia mai che il lupo si sazi poco di cane.


    
Maledetta la natura e le bestie mostruose come il lupo, piagnucolano con la coda fra le gambe.
I cani non erano neanche bastardi, e il prezzo in denaro per sostituirli sarà alto.
Poiché tornare a cacciare la pregiata volpe in estinzione è inevitabile.
Il timore, l’istintivo ricordo di un passato atavico da prede, passerà.



La volpe si allontana. Salva, ancora una volta. 
Da preda è tornata cacciatore, poiché non esistono ruoli fissi, in questo gioco, come i più saggi sanno.



Un uomo, da lontano, giura di vederla. È immobile, sopra un tronco cavo, che li osserva. Li fissa con i suoi occhi così profondi, che appaiono coscienti, fino a far emergere una domanda: sarà davvero una semplice bestia? Guidata da istinti basilari? Alla quale manca quella scintilla in più?
Quella scintilla inspiegabile, ma così chiara nella mente di un uomo. La scintilla che, sola e unica, permette di dar vita, a una tortura esilarante come la caccia alla volpe.


Fine

1 apr 2016

Cactus alla ribalta

La storia breve di oggi è una delle più vecchie (risale addirittura al 2006) e proprio per questo necessitava di una spolverata niente male. Ci tenevo, però, a condividere con voi qualcosa di più allegro del solito. Potrei dirvi che si tratta di una favola che parla di come realizzare i nostri sogni, ma la realtà è che questo racconto appartiene più al genere comico, peggio ancora alla sua deriva delirante, quindi, se mal sopportate le storie che niente hanno a che fare con la serietà, fuggite lontano ora che potete!
Se non siete scappati (ahivoi) vi lascio al racconto:

Cactus alla ribalta


Era mezzogiorno. La giornata risultava secca, bollente, e il fatto che mi trovassi in un deserto rendeva difficile considerarlo strano. 
La mia ossessione continuava ad assillarmi, come dal giorno della mia nascita. Non odiavo la mia casa, anzi l’amavo, ma aveva sempre contribuito al problema, quel maledetto problema che non sapevo come risolvere: la mia passione per l’acqua.
No, non avete afferrato. Lo so che l’acqua piace a tutti, che serve a tutti, ma io avrei passato giornate intere a ingurgitarne, e semplicemente per il piacere di farlo.
Non ho mai saputo perché, ma sono nato così e questo è terribilmente assurdo, dato che sono un cactus. 
Ora, probabilmente, avrete capito meglio: per un appassionato dell’acqua come me, il deserto non è proprio il luogo ideale. Ogni goccia è rara come un diamante, bisogna combattere per averla, e può risultare difficile quando si rimane tutto il giorno piantati nella sabbia come una pianta.
I miei simili non parevano impensieriti quanto me, ma si preoccupavano davvero tanto quando cercavo di coinvolgerli in uno dei miei ragionamenti, misteriosamente.
Per mia fortuna, avevo dei fedeli amici d’infanzia sempre pronti ad ascoltarmi, coi quali condividevo un credo incredibile: l’immobilità era una condizione dannatamente svantaggiosa. 
Fu per questo che in quello storico dì, a mezzogiorno, cominciammo a muoverci.
Sì, sì, lo so cosa state pensando: che è una balla bella e buona, ma vi garantisco che è solamente questione di forza di volontà!
Coloro che non ci seguirono si fecero beffe di noi da subito, sostenendo che fossimo storditi per il troppo sole. Al che il mio amico Kip rispose:
«È per questo che ci stiamo allontanando!»
Ammutolirono. 
La nostra comitiva era composta da quattro baldi giovani cactus della miglior specie.
Il già citato Kip era, in gergo tecnico, un filocactusofoso, o se preferite un amico della sapienza cactus. Risultava certamente il più saggio, anche se credeva ai complotti, e faceva sfoggio della sua cultura a ogni occasione, specialmente quando non richiesto.
C’era poi Kob, un cactus rotondetto, paffutello… di grossa taglia? Ok, al bando il politically correct, era un cactus incredibilmente ciccione! La sua soglia di sopportazione del calore era decisamente inferiore alla media e non faceva che lamentarsene, lamentarsene, lamentarsene, reclamando per tutto il giorno la frescura della notte, che adorava fin troppo.
Il terzo cactus era Kas, alto e ribelle, con tanti fiori rossi a fargli da cresta. Amava fare il contrario di quel che gli si diceva. Volete capirne il motivo? Credo che non lo sappia manco lui. Questa volta la sua battaglia era rifiutarsi di stare fermi! 
E in fine c’ero io: Ket. Il leader carismatico, il coraggioso, lo spronatore, la magnifica mente che per pura coincidenza narra anche la storia.    
Inutile dirvi che, inizialmente, ci sentivano tutti carichi.
«Amici, vi rendente conto? Stiamo camminando! Non riesco quasi a pensare al caldo! Che caldo…» ripeteva Kob ogni due passi.
«Tu, al massimo, strascichi.» ribatté Kas col suo tono sarcastico. 
Kip ne approfittò immediatamente per intromettersi con le sue “logiche” deduzioni:
«Non devi stupirti, Kob. Il nostro, semplicemente, è stato un processo di continua e graduale trasformazione. Niente più che un perfezionamento, il raggiungimento di un nuovo stato, che potremmo facilmente contrapporre a…» 
«Lasciamo perdere queste cose!» mi intromisi prima che facesse notte. Un leader sa quando intervenire per il bene comune e quel che diceva Kip non aveva senso, o ero troppo stupido per capirlo, o entrambe le cose.
«Concentriamoci sul nostro piano. Ognuno dica il suo ad alta voce!» proposi per elettrizzarli.
«Trovare l’acqua!» esordii.
«Sfuggire al caldo!» mi seguì a ruota Kob.
«Dimostrare la complicità del sole con il disagio procuratoci!» aggiunse Kip tutto d’un fiato.
Kas rimase in silenzio.
L’osservammo per un po’, con una certa dose d’insistenza. Lui ci fissò a sua volta, impassibile (sì, avevamo anche gli occhi, non vedevamo il perché non averli, dato che potevano tornarci utili).
«Quindi?» lo spronai.
«Ehm… veramente… il mio obiettivo era muovermi. Punto.»
Sverdai. Quello era un problema che più problematico non si può.
Conoscendo Kas sapevo che, realizzando di aver già ottenuto quel che voleva, avrebbe semplicemente smesso di seguirci. Non aveva più niente da dimostrare e in quel caso diveniva atrocemente svogliato.
«Cactabubbole!» esclamò Kip con aria saccente «Tu non hai affatto portato a compimento il tuo obiettivo, Kas.»
Sembrava talmente sicuro di sé che mi aveva già convinto, peccato che non dovesse convincere me.
«Certo che l’ho fatto!» ribatté Kas, irritato.
«Non del tutto.»
«Sì, invece. Piantala di dire il contrario stupida pianta!»
Temevo che di lì a poco sarebbero finiti per fare a botte, ora che potevamo muoverci era uno dei nuovi “vantaggi”.
«E io continuo.» non si fece intimorire Kip «Il tuo obiettivo era camminare, no? Se smettessi di farlo regrediresti a uno stadio precedente, sarebbe come se non ti fossi mai mosso. Per realizzare effettivamente il tuo scopo sei costretto a renderlo una costante!»
Era la cosa più stupida e insensata che Kip avesse mai detto. Probabilmente fu per questo che Kas si soffermò a riflettere e infine annuì.
«Però non lo faccio per voi!» precisò ostilmente.
«Lo fai per coerente incoerenza.» lo assecondò Kip.
«Esatto!»
Continuammo a muoverci a lungo, fino alla gelida notte amata da Kob. Io avrei voluto dormire e Kip era d’accordo con me (avevamo scoperto che camminare tanto stancava) ma Kas continuava a camminare in cerchio con aria ribelle e Kob aveva deciso di saltellare in giro per la gioia del refrigerio.
Quel ciccione non riusciva a fare a meno di sorridere (sì, avevamo anche la bocca, ci sembrava brutto non averla, dato che avevamo tutto il resto) e la sua mole pareva ininfluente mentre effettuava piroette a mezz’aria o spaccate in volo.
«Che meraviglia!» schiamazzava costantemente.
Eravamo abituati a sentirlo benedire le basse temperature ma, ora che potevamo muoverci, avremmo dovuto sopportare anche quei folli balletti.      
«Ti regalerei un tutù!» sghignazzò Kas «Se sapessi cos’è…» aggiunse turbato.
La felicità di Kob durò fino al mattino seguente, quando tornò il caldo e le sue lamentele in merito. Riprendemmo il cammino.
Morivo di sete, dalla partenza non avevo avuto modo di bere una sola goccia d’acqua e per questo mi sentivo a pezzi. La stanchezza consentiva allo sconforto di farsi largo e questo mi portava a domandarmi se avremmo mai trovato quel che cercavamo. Purtroppo per me, ero un leader, e gridare «Abbiamo fallito!» fuggendo lontano e con le lacrime agli occhi, non rientrava fra le possibilità. Quindi mi feci coraggio. Dovevo dare l’esempio alle truppe, non farle prendere dal panico e guidarle verso imprese eroiche! Anche se il successo non era certo, anche se rischiavamo di perderci (cosa probabilmente già avvenuta) saremmo andati avanti! Per il nostro onore! Per i nostri ideali! Per la libertà!
Il mio delirio eroico sarebbe rimasto nascosto alla storia per sempre, se non mi fossi messo a gridare le ultime parole ad alta voce.
Vedendo un povero cactus al centro del deserto, che inneggia senza alcun motivo all’onore, gli ideali e la libertà, i miei compagni, all’unanimità, discussero la possibilità di portarmi in un reparto psichiatrico. Poi rammentarono che, per quanto ne sapessero, fino a quel momento nessun altro cactus si era mosso, né si era mai dimostrato interessato ad aprire un ospedale, figurarsi con un reparto di psichiatria. Furono dunque costretti a ignorare il mio comportamento, o meglio, a discuterne con bisbigli alle mie spalle e con gesti che rappresentavano il mio stato mentale.
Riassumendo: ero stanco, demoralizzato, preso per pazzo, ma soprattutto assetato…
Avrei bevuto la stessa sabbia, se solo fosse stato possibile. Fu quello stato d’animo a portarmi a ignorare, in lontananza, il verde delle foglie di una palma. Non potevo permettermi di farmi ingannare da un tale, lapalissiano miraggio e subire le giuste e conseguenti prese in giro. Per questo avrei ignorato ben più delle foglie della palma, avrei ignorato anche il suo lungo tronco flessuoso, avrei ignorato le sue gemelle, che sembravano formare una giungla, avrei ignorato l’erbetta che originava un manto, sostituendosi alla sabbia, avrei ignorato gli animaletti che, sorridenti, mi facevano cenno di raggiungerli per godere con loro di quella meraviglia, avrei ignorato i miei compagni che, con le lacrime agli occhi, correvano in quella direzione fra le grida di gioia: «Un’oasi! Un’oasi!». Ma, soprattutto, avrei ignorato quella spropositata quantità di acqua che fluiva in numerosissimi corsi, convergendo verso un paradisiaco e azzurro lago che brillava alla luce del sole.
No… aspetta. Quello non potevo ignorarlo! Acqua! Immense quantità d’acqua! Che m’importava s’era un miraggio? Sarei morto felice!
Iniziai a correre a mia volta. Io e i miei compagni eravamo davvero in un’oasi! L’unica alternativa credibile mi vedeva in camicia di forza a ridere fissando il muro di una stanza vuota, ma, avendo già appurato che i manicomi cactus non esistono, potevo stare tranquillo. L’oasi era reale ed era chiaro che sarebbe stata la nostra meta!
Qui, si conclude la nostra storia, poiché ogni membro del nostro gruppo trovò quel che cercava:
Kob, grazia a quelle palme gigantesche, scoprì l’ombra, che anche durante la giornata più calda gli consentiva di stare al riparo e ballare.
Kip, osservando il lago, scoprì tutti i segreti dell’evaporazione dell’acqua, dimostrando l’atroce responsabilità del sole in questo complotto.        
Ket, quindi io, imparò felicemente a nuotare e fare immersione, scoprendo perché gli altri cactus non bevevano così tanta acqua (ma questa è un’altra storia).
Il lieto fine, o una cosa del genere, vi fu per tutti e quell’avventura ci dimostrò che i nostri sogni e desideri, grazie alla perseveranza e un’indomita forza di volontà, non sono impossibili da realizzare (solo altamente improbabili).
Come? Non vi ho detto che fine ha fatto Kas? Scusate, me ne stavo dimenticando. Beh… credo stia ancora camminando, lì, da qualche parte! 


Fine