18 mar 2016

La foresta dell'unicorno

Continua l'operazione atta a rispolverare le vecchie storie del blog! Oggi tocca a "La foresta dell'unicorno". Si tratta di un racconto fiabesco che, pur affrontando temi adolescenziali (specialmente nella seconda parte), si presta a essere letto da tutti. Curiosità: inaspettamente ha degli elementi in comune con "Il fantasma nero" pur appartenendo a  un genere completamente diverso, a voi scoprire quali. 
Vi lascio alle parole del racconto:

La foresta dell'unicorno
 

(1) Il sole era sorto da poco, tingendo le nuvole e il cielo di un rosa leggero.
Gli occhi verdi di Elena brillavano, spalancati per godere di quello spettacolo.
La piccola mano della bambina stringeva quella della madre, che le sorrideva affettuosamente. I loro capelli erano di quel castano chiaro che il sole fa sembrare dorato; come accadeva ora, portandole entrambe a risplendere fra quei giochi di luce naturali, ma apparentemente irreali.
Si trovavano in una lunga distesa pianeggiante, dove sorgevano nuovi campi coltivati.
Verso est si scorgeva un grande lago con le acque sospinte dalla brezza, dal quale si diramavano tanti piccoli ruscelli e un lungo fiume, che scorreva verso nord fino a nascondersi in una foresta rigogliosa: un luogo misterioso, agli occhi di un bambino, che alimentava la curiosità per un ignoto, seppur temibile, attraente.
Appena più a nord si potevano ammirare delle maestose montagne, che parevano proteggere la foresta come un roccioso semicerchio. Da lì, la vista non poteva spingersi oltre.
Madre e figlia erano arrivate in quella terra il giorno stesso. Il padre di Elena e altri uomini avevano ottenuto il permesso, dal proprio signore, per coltivare quella zona fertile abbandonata a sé.
Era un’occasione per vivere una vita tranquilla, guadagnarsi il proprio sostentamento e non soffrire la fame. Praticamente un miracolo.
Gli uomini si erano spostati in anticipo per edificare le case e cominciare a lavorare i campi, e in quel giorno, finalmente, le loro famiglie si sarebbero ricongiunte.
Fu così anche per la famiglia di Elena: moglie e marito si abbracciarono e baciarono  e la bambina venne sollevata in alto con affetto.

(2) Avevano una piccola casetta in legno, ora, dotata di tutto il necessario, e anche se niente, in quella terra, era davvero loro, la consideravano comunque tale.
Sarebbe stato facile affezionarsi a quel posto. Le persone, per l’opportunità concessagli, provavano un’istintiva fratellanza, che le spingeva a collaborare. In breve tempo divennero tutti amici, sia che si conoscessero da prima o meno.
I bambini erano felici. A differenza dei loro genitori sarebbero cresciuti in un luogo magnifico, dove giocare e correre in lungo e in largo. Alla piccola Elena, però, tutto questo non poteva bastare. Non per soddisfarla pienamente, quantomeno.
Era troppo curiosa, lei, più curiosa di ogni altro bambino. Le pianure erano belle, certo, spaziose, tranquille e sicure, ma quella foresta a nord, fonte di possibili misteri, era molto più interessante.
La bambina veniva ammonita spesso di non allontanarsi troppo. Doveva sempre rimanere vicina alla mamma, affinché potesse controllarla. I genitori avevano colto la sua vena da esploratrice, ed essendo il piccolo tesoro di famiglia non volevano corresse neanche uno rischio.
Fu per questo che s’insospettirono subito, quando la piccola cominciò a chiedere di portarla a vedere la foresta.
Per tutta risposta, quello, divenne un luogo proibito e la bimba iniziò in un lampo a fare i capricci. Più glielo negavano, più desiderava andarci.
Un’altra madre, coi figli pestiferi, suggerì ai genitori di Elena di demonizzare la foresta. Il padre cominciò a raccontarle delle storie su un pericoloso mostro che l’abitava: un lupo gigantesco e cattivo, dal manto nero e gli occhi rossi, che mangiava i bambini.
Il piano, in qualche modo, funzionò.
La piccola Elena era combattuta: voleva ancora scoprire i misteri della foresta, ma cominciava anche a temere d’imbattersi nel lupo gigante.
Smise di chiedere di andarci. I suoi genitori si sentirono sollevati.

(3) Passò del tempo e i campi si fecero prosperi,  portando tutti a immaginare un grande raccolto autunnale. Le donne, dopo che gli uomini si erano assicurati che non vi fossero pericoli, avevano deciso di andare a raccogliere dei succosi frutti che crescevano nella foresta.
Avrebbe partecipato anche la madre di Elena, che s’interrogò se tenere la figlia con sé o lasciarla in custodia a qualcuno. Dopotutto sarebbero state parte di un gruppo, e le altre donne volevano portare i bambini per farsi aiutare. Ultimamente la piccola aveva parlato poco della foresta e questo convinse sua madre a cedere. Suo padre le disse che il lupo gigante, se fosse rimasta vicina agli altri, non si sarebbe fatto vedere. Elena, elettrizzata all’idea di esplorare quel luogo misterioso, aveva già perso ogni timore.
Il giorno tanto atteso, arrivò.
Visti da vicino, gli alberi della foresta erano ancora più grandi, e altissimi. Il verde dominava e l’erba le arrivava alle ginocchia. Attorno al gruppo cinguettavano tanti uccellini e una piccola coccinella si arrampicò sulla sua gamba, facendole il solletico. Elena la portò a camminare sulla sua manina, esaminandola con occhi meravigliati e gioiosi.
Per un istante le parve persino di scorgere una creaturina pelosa, che scappò fulmineamente verso un ramo. Avrebbe voluto vederla meglio. Voleva vedere tutto!
La piccola era diventata incontenibile. Saltellava, toccava ogni cosa e faceva domande in continuazione. La madre, che dovette recuperarla innumerevoli volte, cominciò a pentirsi della sua scelta, ma ormai era troppo tardi.
Elena non aveva paura di niente. Come avrebbe potuto? Quella foresta era bellissima, come l’aveva sognata. Non voleva andarsene più!
Le donne sostavano spesso per raccogliere i frutti. Avevano portato delle larghe ceste che pian piano si riempivano dei più belli e colorati. I bimbi attorno a loro giocavano rumorosamente, ben pochi aiutavano realmente le madri e alcuni provavano persino a rubare dalle ceste ridacchiando, per poi piagnucolare quando, scoperti, gli venivano pestate la mani.
Elena preferiva stare per conto suo. C’erano più maschietti che femminucce, e le poche, stavano per lo più attaccate alla gonna di mamma. Solamente lei era fuori controllo.
I maschietti, esagitati, la ignoravano. Se concedevano attenzioni a qualcuno, in genere, era per azzuffarsi senza particolari ragioni.
La bimba, dal canto suo, non badava a loro; era troppo impegnata a guardarsi attorno. 
In quel preciso istante, ad attrarla, fu un rumore.
Si dondolò sulle punte dei piedi per un po’, cercando di ascoltare meglio: era uno scroscio d’acqua.
Le donne stavano riempiendo ancora le ceste. La bimba vide che la mamma era all’opera e ne approfittò per avvicinarsi alla fonte del rumore, superando qualche albero di troppo che la nascose alla vista.
Un fiume apparve di fronte ai suoi occhi, con tante pietroline di varie forme su entrambe le sponde.
Elena, senza pensarci due volte, si avvicinò svelta svelta all’acqua per immergervi un piedino. Era davvero fredda!
«Che fai?»
La piccola sentì una voce alle sue spalle e si girò di scatto.
Vide un bimbo, poco più alto di lei, coi capelli scuri e gli occhi chiari come il fiume. Aveva le guanciotte gonfie e la guardava con aria preoccupata.
La bimba rise e senza rispondergli gli diede nuovamente le spalle.
Il bambino gonfiò ancor più le guance e decise di avvicinarsi. La sua andatura era un po’ goffa e il terriccio e i sassi scivolosi peggioravano soltanto le cose.
«Non ci dobbiamo allontanare!» esclamò, sempre più preoccupato.
La bambina continuò a ignorarlo.
«Torniamo!» insistette al limite della disperazione e uno dei suoi piedini sdrucciolò in avanti.
Pochi istanti e fu col sedere a terra.
La bimba si girò in quel momento e scoppiò a ridere.
«Come sei buffo!» esclamò fra una risata e l’altra.
Il bimbo si arrabbiò. L’aveva seguita per salvarla dall’essere sgridata e lei lo prendeva in giro. Tornato in piedi e rosso in volto avanzò spedito, braccia in avanti. La spinse e la fece cadere.
Elena scoppiò a piangere.
Il bambino, confuso, indietreggiò di qualche passo. Lei balzò in piedi, asciugandosi gli occhi con i pugnetti chiusi, per poi scappare via e superare il fiume, fino a sparire dietro agli alberi.
Con tutto quel rumore, poco dopo, la madre di Elena e altre donne raggiunsero il fiume, trovando solamente il bimbo, ancora confuso, che osservava l’altra sponda.
Interrogato seppe solamente dire che Elena era scappata. La madre di lei, preoccupata, si affrettò a cercare di raggiungerla.

(4) La piccola correva per la foresta, senza guardarsi attorno. Non pensava a quel che faceva, si limitava a scappare dal bimbo cattivo, che non voleva più vedere. Solamente dopo aver corso a perdifiato, realizzando d’essersi persa, si fermò spaventata.
Si guardò attorno. Provò a chiamare la mamma, poi il papà, ma nessuno rispose.
Fu pensando al padre che le tornarono in mente le sue parole: fino a che fosse rimasta con gli altri, il lupo gigante non l’avrebbe presa.
Ora era sola.
L’incanto della bella foresta sparì, lasciando il posto alla paura.
Ombre e sibili del vento la portavano a sobbalzare continuamente.
La bimba, col volto rigato dalle lacrime, non sapeva cosa fare. Si rannicchiò contro un albero, proteggendo la testa fra le braccia e le ginocchia.
Non vedere le cose brutte, però, non era d’aiuto; non lì. I rumori continuavano e, senza lo sguardo a rassicurare la mente, fantasie sempre più spaventose si facevano largo.
Un rumore molto forte, prima distante, parve approssimarsi. Non era il vento, non le foglie, ma qualcosa che si muoveva, che si avvicinava lentamente.
Elena singhiozzava. Voleva guardare, ma non ne aveva il coraggio. Quello era il lupo gigante, lo sapeva, il padre l’aveva avvisata: mangiava i bambini e ora avrebbe preso anche lei.
Lo sentiva, vicinissimo, probabilmente a un passo. Se avesse aperto gli occhi avrebbe certamente visto il suo manto scuro, le iridi rosse, i denti affilati.
Forse fu il desiderio di fuggire a spingere le sue palpebre ad aprirsi lentamente, mentre le mani sfioravano l’arbusto alle sue spalle, per tirarsi su tocco a tocco.
Gli occhietti si spalancarono.
C’era una luce intensa. La irradiava una creatura, che non aveva il manto nero, bensì bianco candido. Non era affatto un lupo. Era simile a un cavallo, ma con un lungo corno affusolato sulla fronte.
Gli occhi azzurri del destriero trasmettevano saggezza, come se parlassero.
Elena, sconcertata, osservava l’unicorno. La paura era svanita. Con quella creatura si sentiva inconsciamente più al sicuro che coi suoi genitori.
Il destriero impennò con grazia ed eleganza, poi si avvicinò alla bimba, osservandola negli occhi senza mai scostare lo sguardo.
Lei, incantata, allungò una mano verso il suo collo. La creatura non indietreggiò e si lasciò accarezzare.
Elena sorrise felice. Aveva trovato il segreto della foresta: una creatura magica, ciò che in cuor suo sperava di scoprire.
L’unicorno l’aiutò a salirgli in groppa e si mosse adagio per passeggiare con lei. La condusse fino a uno spiazzo, nel quale si ergeva solamente una grande quercia.
Il destriero si avvicinò all’albero, per poi accovacciarsi e dare modo a Elena di scendere. La bimba riprese ad accarezzarlo.
Era così bella, quella creatura. La piccola percepiva ciò che l’unicorno voleva dirle senza il bisogno di parole. Comunicavano con gli sguardi, come per magia.
Elena sapeva che, da quel giorno, la foresta sarebbe stata la sua vera casa, un luogo dove non temere più nulla.
L’unicorno era il suo guardiano e avrebbe sempre scacciato le ombre.
Sarebbero rimasti amici per la vita.

(5) Elena, il giorno stesso, ritrovò la strada di casa. Fu l’unicorno a indicargliela.
I genitori, disperati, non erano riusciti a trovarla. Vederle superare la soglia fu un incredibile sollievo. 
Non venne sgridata, inizialmente, ma da quel momento la sorvegliarono rigidamente.
Elena, dunque, prese l’abitudine di allontanarsi la notte, di nascosto, lasciando la sua vecchia casa per raggiungere quella nuova: la foresta.
La guidava una luce fatata, ogni volta, che non le consentiva di perdersi fra le ombre e la portava al suo guardiano: l’unicorno.
Mentre erano assieme, la luce diveniva intensa come quella del giorno.
Notte dopo notte, anno dopo anno, Elena divenne adolescente e i genitori non scoprirono mai le sue fughe notturne, smettendo di sorvegliarla ossessivamente.
Elena, ora, si recava nella foresta a ogni occasione. Il suo legame con l’unicorno era indissolubile, si trattava di una simbiosi magica, diversa dall’amore per un famigliare o per un uomo, ma egualmente intensa.
Cavalcava con lui fra gli alberi, e lasciava che le rivelasse ogni segreto della natura circostante. Nessuno conosceva quei luoghi che la metà di lei. Tra i contadini c’era chi cominciava a pensare che, la ragazza, sapesse a addirittura parlare con le creature e le piante. Persino suo padre rimase di stucco quando, la figlia, gli consigliò come rendere più rigogliosi i campi, e con strabiliante successo.
Elena era più intelligente e pura di ogni altra ragazza del luogo, un dono, avrebbe detto qualcuno. La dolce bambina, crescendo, era divenuta anche bella e ne conseguirono sguardi incantati da parte degli uomini e d’invidia da parte delle donne.
A lei, quegli sguardi, interessavano poco. Non si riteneva superiore a nessuno e la sua testa, oltretutto, era sempre altrove. Il suo impegno ad armonizzarsi col mondo circostante, ironicamente, la faceva risultare in disparte e la conduceva a tralasciare gli svaghi più comuni.
Alcuni ragazzi, sicuramente, la ritenevano un po’ stramba, e si rivolgevano a lei senza intenzioni serie; questo esaudiva le ragazze più pettegole, che avevano di che parlare.
Una solo persona non apparteneva a entrambe le categorie: un ragazzo piuttosto alto, dai capelli corti scuri e gli occhi chiari come le acque di un fiume.
Il lavoro nei campi col padre lo aveva reso robusto, ma era rimasto un po’ goffo, specialmente quando sotto pressione.
Tempo addietro era stato sgridato sonoramente per aver fatto scappare una bambina nella foresta. Si era sentito incredibilmente in colpa, anche dopo che la bambina, per grande fortuna, era stata ritrovata.
Per certi versi era rimasto arrabbiato, con lei. Nessuno aveva mai capito che non era stata solamente colpa sua. Questo gli consentiva di riconoscerla sempre, e col passare degli anni, guardandola e riguardandola, tra rabbia e senso di colpa, si ritrovò a confrontarsi con qualche altro strambo pensiero.
Il suo sguardo, oramai, era essenzialmente imbambolato. Peraltro non aveva il coraggio di parlarle, e se lei ricambiava lo sguardo, diveniva rosso come le coltivazioni di pomodori. A quel punto la goffaggine prendeva il sopravvento.
Il più delle volte inciampava durante una tentata fuga, attirando ancor più l’attenzione.
Elena, come detto, era distratta, ma a suon di ruzzolate, il giovane era riuscito a rimanerle impresso. La ragazza, ormai, rideva per ognuno di quei buffi siparietti, e ogni volta che lo faceva, lui si irritava, gonfiando le guance.
La stessa Elena divenne distratta, una distrazione diversa, che sconvolgeva un equilibrio.
Un giorno, il ragazzo, indispettito dall’ennesima caduta e la conseguente risata della ragazza, ammutolì, quando realizzò che si era avvicinata a porgergli la mano per aiutarlo a rialzarsi.
Elena gli sorrideva e lui non riusciva a smettere di guardarla, al punto di lasciarla lì, con la mano tesa, il tanto sufficiente da farle chiedere se stesse bene.
Realizzando l’accaduto, il ragazzo scosse la testa, rialzandosi da solo.
Un silenzio imbarazzante dominò la scena.
Lei scoppiò a ridere di nuovo e il ragazzo tornò imbronciato.

(6) Si trovarono a passeggiare assieme fino alla recinzione di uno dei campi. Vi si appoggiarono per osservare l’orizzonte.
Mancava poco al tramonto, che rendeva quelle pianure uno spettacolo.
La foresta era alle loro spalle.
«Mia madre mi ha parlato di te. Ti chiami Argo, vero?»
Elena aveva un’aria divertita, questo lo fece tentennare. Guardò al lato opposto, prima di tornare a osservarla e risponderle:
«Ehm... sì...» 
«Aiuti tuo padre nei campi, immagino. Tu hai intenzione di restare? Alcuni pensano di vagabondare fino alla città, ma non so quanto ne verrebbe a gente come noi.»
Il ragazzo parve interdetto, come se l’idea di andarsene da quella terra non gli fosse mai passata per la mente.
«Io resto.» affermò pacato, tornando a osservare l’orizzonte  «Qui mi piace. È un posto sereno. Ho già la fortuna che mi serve.»
La ragazza sorrise.
«Sono perfettamente d’accordo.»

(7) Elena passeggiava per la foresta. Stava per raggiungere la radura della grande quercia e canticchiava fra sé e sé. Argo camminava alle sue spalle.
«Quindi è qui che vieni quando... ehm... quando vuoi stare sola?» le domandò il ragazzo, guardandosi attorno.
«È un posto che vale la pena vedere sempre!» rispose lei, allegra.
Si avvicinarono entrambi ai piedi della quercia e Argo accennò un sorriso.
«È un bel posto, sì.» concordò.
«Aspetta di vedere il meglio!»
Pareva che Elena attendesse l’arrivo di qualcuno.
Passò del tempo e Argo divenne confuso. Le luci del tramonto erano ormai tenue.
«Fra poco farà buio.» valutò il ragazzo «Sarebbe... ehm... dovremmo tornare a casa. Penso...»
Elena sembrava delusa, non smetteva di guardarsi attorno. Cedette.
«Hai ragione. Comincia pure ad andare. Devo fare un attimo una cosa, ci rivedremo domani!»
Cercò di sorridergli. Argo annuì, tentennò un poco e poi iniziò a incamminarsi. Quando stava per lasciare la radura si rigirò un istante, come se volesse dire qualcosa, ma lasciò perdere, si gratto il capo e scomparve alla vista.
Gradatamente arrivò il buio, un buio profondo. La luce fatata non si mostrava e nemmeno l’unicorno.
Elena, preoccupata, sentì riemergere dentro di sé vecchi timori. L’ansia crebbe di minuto in minuto.
Un rumore alla sua destra la fece voltare di scatto. Quello di un ramo che si spezza, seguito da un movimento nella boscaglia.
Ora distingueva bene i suoni, ed era questo a preoccuparla: essere consapevole che non si trattasse del vento, né di un passerotto o di una lepre.
Qualcosa avanzava a passi pensati, e non erano gli zoccoli di una creatura bianca e lucente. Appartenevano a qualcosa di più grande, che rievocava vera paura.
Un manto nero emerse dalla selva, le zampe artigliate lo accompagnavano a passo di caccia. Era poco distinguibile in quella oscurità incombente, ma gigantesco nella forma, terrorizzante allo spalancarsi delle palpebre, svelanti iridi rosse come il sangue.
Le sue fauci si aprirono sbavanti, mentre il muso annusava la sua preda, cogliendone la paura, e preparandosi a inseguirla a un solo passo falso.
Elena si mosse all’indietro lentamente, poggiando le mani tremanti alla quercia alle sue spalle, sperando d’essere protetta. Poi si accasciò, rannicchiandosi come la bambina del passato, mentre le lacrime affioravano copiosamente.
Perché non era più al sicuro?
Il gigantesco lupo non aspettò oltre, percependo la propria preda inerme iniziò a correre, pronto a dilaniarla con artigli e denti.
Una luce affiorò in un lampo da destra.
Il lupo, respinto come da un vento possente, si ritrovò a interrompe la sua corsa. Spostandosi di lato rivolse la fauci sbavanti allo splendore crescente, ringhiando, sbraitando, ma senza potere nulla. Si arrese, in fine, a quella forza luminescente, che lo costrinse a sfuggire nell’ombra e sparire.
Il guardiano, vincitore, scalpitò. Con lo sguardo severo si avvicinò alla ragazza tremante, alla quale aveva appena salvato la vita.
Elena gli abbracciò il collo, ma l’unicorno non la consolò come in passato. Non le trasmetteva quel calore rassicurante di un tempo. Sembrava freddo e così i suoi occhi.
Non avevano bisogna di parlare, fra loro, comunicavano con gli sguardi e con la magia che li univa, ma ora l’unicorno le parlò, nella mente, con parole chiare, il sintomo di qualcosa che si era spezzato.
«La foresta non ti è più devota. Non sei più al sicuro, qui. Le ombre conoscono la tua debolezza e si avventano contro di essa per portarti a loro.»
Elena era confusa. Parlò a sua volta, con un solo sussurrò d’incomprensione:
«Perché?»
Le lacrime, come da bambina, le rigavano il volto; si fecero traboccanti.
«Stai perdendo la tua purezza, Elena, la tua armonia. Il tuo cuore non è più legato al sincrono respiro della foresta, in lui risiede la richiesta di legarsi a un singolo, non più alla moltitudine. Questo ti distrae, ti distoglie da ciò che hai imparato, ti distoglie da me.»
Le ultime parole del guardiano sembravano taglienti come una lama.
«Non posso proteggerti se non liberi la tua anima da ciò che è futile. Devi permettere a ogni cosa di tornare come prima.»
La ragazza, sofferente, osservava la creatura. Ora capiva le sue parole. Se voleva restare fedele alla foresta e al suo guardiano, a tutto ciò che significava quella vita, non avrebbe mai potuto amare una persona, non avrebbe mai potuto concederle la supremazia.
«Rigetta questi pensieri, Elena. Torna con noi, torna con me. Lascia che io ti protegga da questo mondo.»
Per un momento, gli occhi dell’unicorno si fecero dolci come un tempo. In quell’istante la ragazza percepì dentro di sé tutta la sicurezza che quella vita le faceva provare. Era abbastanza per sottrarsi a un cammino nuovo e sconosciuto?
Elena accarezzò il collo dell’unicorno, affettuosamente.
«Tu mi chiedi di reprimere quello che provo, di tornare a rifugiarmi sotto la vostra protezione, di restare al sicuro da una vita complicata e piena di pericoli. Ma se io accettassi tutto questo, se io non mi confrontassi col vero mondo, non starei vivendo, sarei solamente schiava di un’illusione. Vi ho amati tutti, tanto, e mi avete aiutata a superare le mie paure. Ma è arrivato il momento nel quale imparerò ad affrontarle da sola. Se ci sarà una persona al mio fianco, con la quale combatterle assieme e non sulla quale scaricarle, forse, le avversità della vita varranno comunque la pena di essere vissute.»
L’unicorno rimase immobile.
«Grazie...» sussurrò la ragazza, baciandogli il muso.



(8) Due ragazzi passeggiavano all’alba in una verdeggiante pianura.
Si tenevano per mano, mentre osservavano i campi rigogliosi che avrebbero concesso uno dei migliori raccolti degli ultimi anni.
Alla luce del sole i capelli di lei sembravano dorati, e gli occhi di lui risplendevano come le acque di un fiume.
Si guardarono per un solo istante. Lei accennò un sorriso, lui finse d’imbronciarsi. In fine si avvicinarono e si baciarono fra quel turbinio di luci.
Erano pronti ad affrontare la vita, memori delle sua difficoltà, mentre da una lontana foresta a nord, una bianca creatura serena, un destriero candido con un corno affusolato, concedeva la sua benedizione a quei viandanti della vita terrena.


Fine

13 mar 2016

Il fantasma nero

La storia di oggi sarà speciale per più motivi: il primo e più importante è che si tratta di una storia nuova che ho scritto in questi giorni, e non di una vecchia ricorretta. Non scrivevo una storia breve da circa sei anni, da quando l'ultima si era gradualmente e incontenibilmente trasformata in un romanzo di seicento pagine (ancora incompleto). Si tratta poi del primo racconto breve appartenente alla categoria horror (anche "Tra le pieghe del sipario" appartiene a quel genere ma è un libro) cosa che lo rende assolutamente inadatto ai bambini e dallo stile particolare, ancor più a causa delle brevità della storia e la conseguente natura sperimentale. 
Sperando di non avervi spaventato troppo (o forse sì) vi lascio alle parole del racconto: 

Il fantasma nero


 Era una notte buia e tempestosa. Di quelle classiche, da racconto. Un pensiero che portava il piccolo Anselm a sorridere.
Non sapeva perché, ma era sempre stato così. Quel che atterriva gli altri bambini lo incuriosiva, elettrizzava. Come se i misteri tenebrosi non fossero altro che un’avventura, e del miglior genere.
Anselm era al calduccio sotto le coperte. La mamma ne aveva aggiunto un’altra la notte prima a causa del freddo pungente. Il piccolo la stringeva fra le mani, tirandola su fino a coprirsi la bocca, mentre gli occhi osservavano prima a destra, poi a sinistra; ancora e ancora.
I lampi attiravano il suo sguardo verso la finestra, ogni volta, ma Anselm era convinto che ci fosse qualcosa di più interessante nella sua stanza. Un mostro, magari, che sfruttava la tempesta per nascondersi meglio.
Era un brividino lungo la schiena a suggerirglielo. Lo stesso brividino che lo portava a puntare gli occhi verso qualsiasi stranezza. Come quel mucchio contorto di tentacoli sulla sedia!
Ah, no. Erano solamente i suoi vestiti...
Allora quel diavoletto cornuto acquattato di fianco alla porta!
Niente. Era il suo pallone da calcio con un paio di calzini spaiati sopra…
Forse quel serpente che strisciava sul pavimento?
No, uffa… come c’era finito lì il boa della mamma? Un boa vero sarebbe stato il massimo, ma quella era solamente una noiosissima sciarpa.
L’armadio vibrò improvvisamente, attirando all’istante gli occhietti di Anselm.
Non lo aveva immaginato. Non era possibile.
L’armadio vibrò una seconda volta e il piccolo sorrise sotto la calda coperta. Era una conferma.
Il freddo lo avvolse innaturalmente. Per lui fu come uno strano abbraccio.
Non lo vide a un primo sguardo. Non era possibile. Ma quando se ne accorse i suoi occhi si spalancarono.
Essere elettrizzato non rendeva giustizia alla sua emozione.
«Ciao. Io mi chiamo Anselm e tu?» 
La creatura rispose.

Sei anni dopo.

Il giovane Anselm passeggiava per strada. Era uno dei pochi ragazzi dai capelli corvini, corti e disordinati.
Le sue cuffie riversavano musica metal a tutto volume direttamente nelle sue orecchie, mentre i grigi occhi distratti osservavano a mala pena i dintorni.
Un ragazzo sullo skate, biondo come tanti, lo superò assetandogli uno schiaffo dietro il collo, poi emise una grassa risata.
Anselm si accorse subito di non conoscerlo e sorrise. La batteria in quel pezzo era una bomba e non poté fare a meno di fingere di suonarla ritmicamente, come se stringesse saldamente le bacchette.
Lo skater sfrecciò sulla strada in quel momento e lo skate volò lontano, come sospinto da un ciclone. Il proprietario impattò a terra nella più totale incomprensione e il suv di passaggio non fece in tempo a frenare.
Anselm continuava a muovere la testa a ritmo. La musica metal copriva le urla della signora che aveva appena assistito all’incidente.
Dio, quanto amava quella canzone.

Anselm superò la soglia di casa. Fece a mala pena in tempo a togliersi le cuffie. Sua madre era già di fronte a lui, coi bei capelli biondi ondulati e il sorriso sulle labbra.
«Com’è andata oggi, tesoro?»
Anselm l’abbracciò affettuosamente.
«Benissimo. La lezione di storia è stata paurosa!»
Sua madre lo scrutò con aria volpina.
«E quella di matematica?»
«Paurosa anche quella.»
Era chiaro che la stessa parola, ora, avesse riacquisito il proprio significato originale. Lo sguardo furbo di Anselm non faceva niente per nasconderlo. 
Sua madre scosse la testa e gli scompigliò i capelli, come se potesse fare la differenza, per poi dirigersi in cucina.
«Mentre tornavo a casa c’è stato un incidente.» la informò Anselm, avviandosi verso camera sua.
«Davvero?» chiese sua madre, mentre si assicurava che i fornelli non bruciassero il pranzo.
«Già. Hanno investito un ragazzo.»
Anselm cominciò a salire le scale.
«E ora come sta?»
«Credo sia morto.»
Sua madre portò istintivamente una mano di fronte alla bocca.
«Oh, povero caro.»   
La carne, ora, era cotta a puntino.

Othild arrivò il pomeriggio per studiare con Anselm. Lui le piaceva molto, ma non avrebbe saputo dire perché. Non era il ragazzo più bello, né il più alto. Era magrolino e aveva un nonsoché da maledetto, anche se sorrideva sempre. Forse era quello a piacerle, o il fatto che non sembrasse avere paura di nulla. Oppure, a intrigarla, erano le storie da brividi che le raccontava.
Era così seccante rimuginarci ancora. Le piaceva e basta. Perché doveva cercare di dare una ragione a tutto?
La camera di Anselm era così diversa dalla sua, con tutti quei poster da metallari, quegli strani pupazzi di mostriciattoli che non aveva idea di dove avesse comprato e quell’assurdo terrario vuoto, che il ragazzo le aveva confidato volesse riempire con un mamba nero, uno dei serpenti più velenosi al mondo.
«Perché non inizi con un serpente più tranquillo?»
Othild gli pose quella domanda di punto in bianco, come se ne stessero parlando fino a quel momento. Non era importante che lui non avesse avuto modo di seguire il percorso indipendente dei suoi pensieri.
«Perché sono noiosi.»   
Non aveva tentennato neanche per un secondo. A volte questo la infastidiva. 
«Ma almeno non possono ucciderti.»
Si ritrovò gli occhi di Anselm di fronte ai suoi. Si era avvicinato rapidamente e silenziosamente. La ragazza si trattenne a stento dall’emettere un singulto.
«È proprio per questo che sono noiosi.»
Il ragazzo le sorrideva perfidamente. Othild percepì crescere l’imbarazzo e l’agitazione, ma lui le rimescolò l’emozioni rifilandole un bacio a stampo, che la mandò letteralmente in tilt.
«Perché lo hai fatto?» strepitò mentre Anselm tornava al suo posto, impassibile.
«Era quello che volevi, no?»
Il viso di lei divampò, non avrebbe saputo dire se per rabbia o vergogna. Probabilmente entrambe.
«E tu che ne sai?»
«Me lo ha detto un amico.»
Odiava quella nonchalance e questo la portò a rispondere per cercare di ferirlo:
«Tu non hai amici.»
Nessuna reazione. O almeno non quella desiderata. 
«Se vuoi te lo presento.»

Othilt non credeva a quel che stava facendo. Aveva accettato di tornare di notte, di nascosto, a casa di Anselm. Aveva aspettato che i suoi genitori le augurassero la buonanotte e poi era uscita dalla finestra. Non lo aveva mai fatto prima.
Sotto casa aveva trovato Anselm, con una felpa e il cappuccio alzato sui capelli arruffati.
«Ti avevo detto che ti avrei raggiunto io. Che non avevo paura di farlo da sola!» lo rimproverò seccata.
Lui le prese la mano senza scomporsi.
«Mentivi.»

I due ragazzi passeggiavano per le strade della cittadina in piena notte. Anselm sorrideva come se fosse una splendida giornata e Othild si ritrovò a farlo a sua volta, anche se la testa le continuava a ripetere che era una stupida. Era una versione distorta di un appuntamento? Perché si sentiva felice?
«Va bene anche così.» le disse Anselm all’improvviso.
«In che senso?»
«Non sei obbligata a venire a casa, né a conoscere il mio amico.»
Lei inarcò le sopracciglia chiarissime.
«Perché mi hai fatta uscire a fare, allora? Se i miei lo scoprono sono morta.»
Anselm si fermò, piazzandosi davanti a lei.
«È questo di cui hai paura?»
Othild non capì la domanda, ma si limitò ad alzare le spalle. Anselm si guardò attorno.
«Posso fartelo conoscere anche qui. È sempre con me.»
«Adesso sei tu a farmi paura!» provò a scherzare la ragazza.
Un brivido gelido l’avvolse, portandola a sfregarsi istintivamente le braccia.
«Che diavolo di freddo!» 
Anselm la strinse a sé, riscaldandola.
«Ti riporto a casa.»

«Non è antipatica.»
Anselm, sdraiato sul letto, parlava da solo. Erano le cinque del mattino e non aveva chiuso occhio.
«Questo lo dici tu. E comunque non puoi farci niente.»
Lo sguardo del ragazzo si fece incerto.
«No, non ho paura. Se l’avessi smetterei di frequentarla.»
Decise finalmente di sdraiarsi sotto le coperte.
«Fai come ti pare.»

Othild si svegliò di soprassalto.
Aveva percepito un brivido attraversarla e ora che osservava la sua camera al buio aveva la terribile sensazione di sentirsi osservata.
Si ritrovò a respirare più forte, in preda all’agitazione. Attorno a lei non c’era niente, era sicura, ma quella sensazione non spariva, semmai incrementava, facendosi opprimente.
«Anselm, sei tu?» mormorò a malapena.
La sua speranza venne spezzata dal silenzio teso e la paura la vinse.
Othild si buttò sul letto, stringendosi nelle coperte a occhi chiusi, cercando un conforto che ogni rumore, anche il più innocuo, rendeva impossibile da trovare.
La tensione la stava uccidendo. Era tutta suggestione. Doveva semplicemente accendere la luce.
Tese la mano per cercare l’interruttore, senza trovarlo. Fu in quel momento che arrivò il freddo.
Othild ritrasse la mano e aprì gli occhi, istintivamente, vedendolo.
Il suo grido di terrore svegliò i genitori all’istante.

«No, oggi non penso verrà.»
La madre di Anselm l’osservava impensierita.
«Come mai?»
«Non è venuta neanche a lezione. Probabilmente sta male.»
Scorgeva qualcosa di strano negli occhi di suo figlio, forse era solamente stanchezza.
«Perché non provi a chiederglielo? Mandale un messaggio.»
«Non so se voglio conoscere la risposta.»

«Devi lasciarla in pace!»
Anselm era chiuso in camera. La musica metal rimbombava fra le pareti.
«Mi interessa, lo ammetto. Sei contento?»
Il ragazzo sbuffò seccato.
«Non è un capriccio!»
Il suo sguardo si fece quasi minaccioso.
«Ti conosco anche io...»
Un coro di voci eteree echeggiò dalle casse.
«No, non ho paura.»

Bussò alla porta ritmicamente e a occhi chiusi, condizionato dall’assolo di chitarra elettrica in cuffia.
Si accorse che la porta era aperta solamente quando la sua mano non poté impattarvi ancora.
Il padre di Othild l’osservava con le sopracciglia aggrottate. Gli stava dicendo qualcosa.
Anselm si tolse le cuffie.
«Che?»
«Cosa ci fai qui?»
L’uomo sembrava agitato e seccato al contempo. Il ragazzo gli sorrise cordialmente.
«Sono venuto a trovare Othild. So che sta male. Pensavo che un po’ di compagnia potesse farle piacere.»
Il padre della ragazza lo fissò dall’alto. Incerto.
«Potrebbe aiutare…»

Othild era sdraiata sul letto, con gli occhi fissi sul muro rosa della sua camera. Aveva i capelli platinati legati a treccia e la sua carnagione chiara ora appariva cerulea.
«Dal grido di stanotte non ha più detto una parola. Se si agita avvisami subito, devo fare delle chiamate.» 
Il tono del padre di lei era grave. Anselm si ritrovò da solo con Othild nel più totale silenzio.
Un orsetto con un bizzarro papillon arcobaleno era poggiato sul comodino. Il ragazzo lo prese fra le mani mentre lei continuava a fissare il muro. Gli occhi a bottone del pupazzo erano ipnotici. Chissà perché avevano scelto proprio il rosso.   
Anselm si sedette sul letto portando l’orso con sé. Lo poggiò fra le braccia di lei, che finalmente diede un segno di vita voltandosi a guardare il pupazzo.
Gli occhi le divennero lucidi e con un gesto rapido e secco lo lanciò lontano.
«So che lo hai visto.» le disse Anselm in quel momento.
Il respiro di Othild crebbe per l’agitazione.
«Non è facile, perché di giorno svanisce, mentre di notte è nero come un’ombra.»
Lo sguardo di lei era basso, il respiro sempre più forte.
«Puoi intravederlo unicamente quanto è molto vicino, di fronte a te.»
Anche Anselm si avvicinava sempre più a lei, parola dopo parola.
«Ed è solamente allora che apre gli occhi: quando sa che lo hai scorto.»
Si ritrovò inconsciamente a sorridere.
«Hai visto come sono? Non saprei descriverli, ma non è il rosso a rimanere impresso. È la forma distorta, che non è nemmeno una forma. È come se fossero diversi, nello stesso spazio, in più realtà.»
Anselm rise in maniera quasi impercettibile.
«Vedi? Non riesco a spiegarlo. Ma non ce n’è bisogno, perché tu sai di cosa parlo.»
Othild gli rivolse lo sguardo, i suoi occhi erano pieni di lacrime, che scivolavano calde sulle sue guance bianche.
«Sei stata fortunata. Di solito uccide chi ha paura. Ma sa che io ci tengo, a te.»
Anselm le diede un bacio a stampo. Lei non reagì.

«Certo che ha paura. Cosa ti aspettavi?»
Anselm strappò uno dei poster della sua camera con rabbia. Il ritmo della musica copriva ogni cosa.
«Non sono deluso!»
Il ragazzo puntò il dito verso il soffitto.
«Non sai quello che voglio. Non sono più un bambino.»
Spalancò gli occhi.
«No. Non lo farai. Non farlo!»
Il suo sguardo scattò verso la finestra. Istintivamente vi corse in contro, fermandosi a guardare fuori. Strinse i denti, poggiandosi una mano sulla fronte.
Qualcuno batté alla porta di camera sua con forza.
«Tesoro? Puoi spegnere la musica? È tardi.»
Anselm inspirò profondamente, poi sorrise.
«Certo mamma.»

Aneselm correva per le strade della cittadina, di notte.
Non sapeva come lo avrebbe fermato, ma doveva farlo. Non aveva paura, lui non aveva mai paura, era solamente un’avventura, anche se non si sentiva elettrizzato come da bambino.
Forse era preoccupato.
Corse ancor più veloce.

Entrò in camera di Othild dalla finestra. Era buia e silenziosa.
Si avvicinò al letto e udì il respiro di lei, regolare e profondo. Dormiva. Doveva essere crollata per la stanchezza, oppure i suoi genitori le avevano fatto prendere un calmante.
Era arrivato in tempo. Le diede un bacio a stampo.
«Ora ti proteggo io.» sussurrò.
Il coltello le attraversò la gola con un colpo secco e il sangue si riversò sulle coperte e sul cuscino. La ragazza aveva spalancato gli occhi azzurri spasmodicamente, ma senza riuscire a emettere una sillaba.
Anselm la osservava con un sorriso e il volto macchiato di rosso.
Percepì un freddo abbraccio.
«Avevi ragione.» mormorò al niente «Era solamente un capriccio.»  
Anselm estrasse il coltello del suo defunto padre dal collo sottile della ragazza e lo pulì sulla coperta. Diede uno sguardo all’orsetto con gli occhi a bottone che lo guardava da terra e poi uscì dalla finestra.

Passeggiava per le strade della cittadina, verso casa. Era una notte buia e tempestosa, Di quelle classiche, da racconto. Un pensiero che portava Anselm a sorridere. Non sapeva perché, ma era sempre stato così.
I tuoni naturali si legavano perfettamente alla musica metal eruttata dalle sue cuffie, tenute ben salde dal cappuccio della felpa, sollevato sui suoi capelli corvini e scompigliati. Gli occhi grigi erano leggermente arrossati, mentre parlava al vento impetuoso come a un amico, o qualcosa di più.
«È vero.» ridacchiò «Colpevole. Sai quello che voglio meglio di me.»
Scacciò l’aria bonariamente.
«Oh… smettila! Sempre la solita domanda. Dopo questa notte dovresti saperlo ancora meglio.»
Anselm sorrise perfidamente, guardando in avanti.
«No, non ho paura.»


Fine

6 mar 2016

Il diamante più bello

Mentre lavoro a nuovi progetti ho pensato di ridare una spolverata a uno dei racconti che avevo precedentemente inserito nel blog: "Il diamante più bello". Per chi non l'avesse già letto anticipo che è leggermente meno lungo di "Miraggi" (ho comunque numerato i paragrafi), che l'ambientazione richiama, senza pretese di storicità, la colonizzazione europea delle americhe (qui gli europei non sono inglesi o spagnoli ma francesi) e che il tema principale è il valore delle cose
La storia non è adatta ai bambini
Vi lascio al racconto:

Il diamante più bello


Diamante.
Lucente stella mutevole bramata dall'occhio avido.
Stretto nel palmo fino a sanguinare
evochi un dubbio mortale.
Senza celare
il palmo si apre
e vola via la polvere fatale.

(1) Era appena uscito dalla sala da ballo.
Andò a poggiare le spalle contro la parete più vicina, socchiuse gli occhi e sbuffò.
Che terribile branca d’idioti.
Avrebbe preferito non dovervi passare assieme tutto quel tempo, ma era obbligato a farlo, sopportando falsi sorrisi e proferendo saluti e inchini cortesi, quando, in cuor suo, avrebbe voluto esclusivamente mandarli tutti al diavolo.
Le poche battute sottili e ironiche che poteva permettersi non erano sufficienti a placare il suo desiderio di prenderli a pedate nel posteriore. Se anche i titoli li rendevano nobili, suoi parigrado, erano esclusivamente dei rozzi beceri ben vestiti.
Erano inferiori. Degenerate capre ignoranti benedette dalla cieca fortuna di godere di palate di denaro, che sperperavano, scialacquavano, dilapidavano senza alcun contegno, senza un progetto, senza una logica che non fosse quella di compiacere i loro culi regi fino a riempire di toppe le braghe, per poi domandarsi, con sguardo da beoti, come fosse potuto accadere.
Alexandre cercava di sfogare tutta la propria frustrazione in quei pensieri. Sbuffò ancora, irritato, e si sistemò i corti capelli biondi con la mano destra.
I suoi occhi, di un intenso verde smeraldo, si soffermarono sul braccio. La sua divisa rossa era sporca. Una grossa chiazza scura si spandeva e non aveva la benché minima idea di cosa l’avesse causata.
«Che siano dannate quelle cameriere incompetenti e figlie di tro…»
«Succede qualcosa?»
Alexandre ebbe quasi un colpo. Pensava di essere solo. Era talmente distratto da non accorgersi che qualcuno aveva riaperto la porta della sala da ballo. Almeno fino a quando questi non gli aveva rivolto parola.
Era un giovane, come lui, con i capelli castani non troppo scuri e legati in una corta coda da un nastro blu. Gli occhi erano azzurri e l’espressione cortese. L’opposto della marcata presunzione di Alexandre.
Portava anch’egli una divisa. Il tessuto era di un colore simile a quello del nastro e le decorazioni e le spalline argentate.
«…Christophe!»
Conosceva bene quel ragazzo. Erano amici d’infanzia e avevano condiviso la maggior parte dell’esperienze, compresa l’accademia militare; in seguito alla quale, Alexandre era divenuto un generale di sua maestà il re e Christophe il vice del suo reggimento.
Erano i più giovani del regno a ricoprire incarichi di così alto prestigio.
«Ecco dov’eravate finito.» asserì pacatamente Christophe «La contessa Elenoire vi stava cercando. A dire il vero sembrava piuttosto seccata. Sosteneva le aveste concesso il ballo seguente, per poi defilarvi.»
Alexandre si portò una mano alla fronte.
«Quell’oca può pure cercarsi un altro papero, se non la smette di starnazzare in quel modo. Potrà pure essere avvenente, ma non la tollero più di cinque minuti!»
Christophe rivolse lo sguardo verso l’interno della sala.
«Quell’oca sta venendo in questa direzione, a cercarsi un papero, temo.» Alexandre percepì un brivido lungo la schiena.
«Chiudete la porta, presto! Chiudetela, dannazione!»
La porta venne sbattuta sonoramente e il giovane generale rimase immobile, schiacciato contro la parete per non emettere alcun suono. Dall’altro lato si udirono le parole di Christophe, attutite dal muro:
«Sfortunatamente non era qui, madame.»
Seguì un’acuta risposta. La voce era stridula e pretenziosa. Probabilmente, ogni oggetto in vetro della villa tremava a ogni sillaba pronunciata dalla giovane donna.
«Con chi stavate parlando, allora?» domandò la contessa, sospettosa.
«Parlando?» Christophe tentennò, mentre Alexandre cominciava a domandarsi se fosse il caso di allontanarsi di soppiatto lungo il corridoio.
«Stavo, in effetti, chiamando il generale per nome, così da verificare se fosse nelle vicinanze.»
Sopravvivere al fronte era senza dubbio più semplice che accampare scuse a una nobile viziata. 
«L’avrete fatto scappare, allora, quell’ingrato bugiardo!»
Alexandre assunse un’espressione indispettita.
«Suvvia…» accennò Christophe «...non penserete realmente che il generale volesse offendervi?»
Il tono del ragazzo pareva accomodante e sincero, erano le sue parole a risultare poco credibili. La contessa, infatti, gli lanciò un’occhiataccia scettica.
«Voi mi nascondente qualcosa, comandante!»
«Io?» prese tempo Christophe «Sia mai, madame! Vedrete che il generale avrà avuto un malore, o comunque sarà accaduto qualcosa che l’avrà costretto ad allontanarsi.»
Alexandre ebbe un’illuminazione.
Si mosse lentamente verso la porta, in modo da non essere udito, prese un bel respiro e poi scattò verso di essa, spalancandola.
Quasi colpì alle spalle Christophe, ma in quel momento si preoccupava principalmente di apparire allarmato e al contempo deciso.
«Oh, cielo!» esclamò con la professionalità di un attore teatrale «Christophe, mio caro amico. Per fortuna siete qui!»
Alexandre poggiò le proprie mani sulle spalle del comandante, fissandolo con uno sguardo grave e intenso.
Di certo, la contessa Elenoire, era rimasta stupita da un’entrata in scena così irruenta, la sua vera natura, però, riemergeva rapidamente. Stava già per rivolgersi ostilmente al generale, ma questi l’anticipò.
«Oh, Elenoire!» esclamò, poggiandole soavemente il palmo della mano sulla bocca; con eleganza, ma anche con la forza necessaria a farla tacere. «Dovete perdonarmi, madame, ma il nostro dovere ci obbliga a sottrarci a questo così piacevole evento!»
Christophe, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, cominciò ad assecondare il generale:
«Cosa è accaduto? Ditemi!»
Alexandre colse la palla al balzo:
«Questioni di sicurezza nazionale! Dobbiamo andare!»
Senza concedere alcun tempo alla contessa per obiettare, toltale la mano dalla bocca, Alexandre le baciò la sua con un gesto fulmineo e un ammiccamento, che lui sapeva essere di derisione. Dopodiché, i due soldati, diedero le spalle alla sala e si allontanarono con fare deciso.
Appena sufficientemente distanti, rallentarono immediatamente.    
«Un altro nemico sconfitto, generale.» sorrise Christophe «Penso riceverete una medaglia di qualche genere. Ve la siete meritata.»
Alexandre ridacchiò.
«Non è stato facile amico mio, non lo è stato per niente. Ricordatemi d’inviare in regalo al conte abbastanza tabacco da affumicargli il cervello, così che non ascolti qualsiasi idiozia sul mio conto di cui cercherà di convincerlo sua moglie.»
«Potrebbe comunque apprezzare che siate uno dei pochi fra i suoi ospiti che non hanno contribuito all’incrementarsi delle sue corna.» ribatté Christophe.
«Oh, credetemi… in quel caso sarebbe stato tutto molto più semplice!»

(2) I due amici continuarono a discutere anche a cavallo, lungo il percorso verso la residenza di Alexandre.
Quell’edificio invidiabile si elevava per tre piani, aveva numerose stanze, servitori e un vasto giardino splendidamente curato.
Christophe risiedeva là, con una stanza vicina alla sua. Il generale riteneva prudente circondarsi di persona fidate e non c’era qualcuno di cui si fidasse più di lui.
Si separarono dopo aver lasciato i destrieri alla stalla.
Giunto alla sua camera, Alexandre si spogliò della divisa rossa. Le decorazioni dorate e le medaglie al valore tintinnarono mentre l’adagiava sul letto a due piazze.
Si avvicinò alla scrivania e fra le mani prese la bottiglia di un vino rosso d’ottima annata, che si concedeva di gustare raramente. Vi riempì un bicchiere lungo e stretto in vetro decorato e lo portò alla bocca mentre si avvicinava alla finestra.
La luce era fioca, di fronte alla notte incombente, ma il suo sguardo cercava comunque di spingersi oltre, mentre il suo pensiero s’interrogava su questioni passate e future, su nuove possibilità e traguardi.
«E così, quei selvaggi, hanno fra le mani più di quel che sanno.» pensò.
«Sempre che il conte abbia ragione. Ma anche se lui è uno stolto, gli occhi avidi di quegli esperti al suo fianco erano convincenti.»
Si concesse un altro sorso di vino.
«Mobilitare la mia guarnigione… ne ho l’autorità, certo; e i selvaggi sono sempre pericolosi, non servono grandi giustificazioni per farli sgomberare. Alla luce del fatti, però, un intervento non è così urgente, qualcuno potrebbe insospettirsi.»
Sogghignò.
«Avrei potuto suggerire al conte di far prendere in ostaggio sua moglie. Sarebbe stato divertente!»
Mandò giù un sorso ancora.
«No. Mi devo inventare qualcosa. Un solo passo falso, un sospetto di troppo, e la miniera finirà in altre mani. Tanto varrebbe sbandierarlo.»
Qualcuno bussò alla porta con forza e Alexandre si voltò immediatamente, seccato.
«Cosa c’è?»
«Signore, un uomo chiede di vedervi. È in uniforme. Dice di chiamarsi Léandre.» rispose titubante una delle sue cameriere.
Alexandre aggrottò le sopracciglia.
«Che diavolo vuole quell’incompetente di Léandre a quest’ora?» pensò irritato.
«Fallo attendere all’ingresso. Digli che sto arrivando.» ordinò alla serva. Il suono dei suoi passi confermò che stava andando a fare il proprio dovere.
Il generale indossò nuovamente e di malavoglia la divisa. Era casa sua, ma non aveva certamente intenzione di presentarsi in una veste poco dignitosa. Uno come Léandre poteva aspettare senza problemi.
Appena pronto s’incamminò fuori dalla stanza. Christophe lo attendeva poco più avanti.
«Ora un po’ strana per una visita, non trovate?»
Il comandante stava armeggiando con una pistola a un colpo, appena caricata. Alexandre sorrise e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Adoro il vostro istinto, atto a prevenire i pericoli. Ma dubito fortemente che, un idiota come Léandre, sia capace di spingersi così in là nella propria stupidità.»
Il comandante rimase serio.
«Proprio perché un idiota, non mi fido. Può essere plagiato facilmente.»
Alexandre ebbe un’illuminazione e strinse la spalla dell’amico con forza.
«Voi siete un genio!»
Christophe l’osservò dubbioso.
«Non vi preoccupate e seguitemi.»

(3) Scesero due scalinate, fino a raggiungere la sala d’ingresso. Lì li attendeva, seduto su una bianca panca pregiata, un ragazzo in una divisa militare logora, tendente al verde scuro.
Aveva dei lunghi capelli bruni un poco arruffati e dimostrava bene o male la loro età, ma il suo atteggiamento palesava una forte insicurezza, vera e propria soggezione, che lo poneva automaticamente al di sotto della loro aura di comando.
Appena li sentì arrivare alzò gli spaventati occhi castani verso di loro. Titubò, poi si sollevò di scatto dalla panca e li salutò come si conveniva a dei superiori.
Alexandre teneva le mani congiunte dietro la schiena, Christophe gli era a fianco, con la pistola in vista.
Léandre, notandola, deglutì.
«Si…signore, comandi!» farfugliò.
Il generale rimase perplesso.
«Comandi?» domandò «Sei tu che hai chiesto udienza, soldato. Non ti ho convocato io. Che devi dire? Parla!»
Si divertiva a mostrarsi autoritario, specialmente con qualcuno così confuso e intimidito.
«Io…» accennò questi «Io… ecco…»
«Il generale ti ha fatto una domanda.» ribadì Christophe.
«Sono qui a offrirvi il mio contributo, generale!» esclamò Léandre tutto d’un fiato.
Alexandre trattenne a stento una risata.
«Di che parli? Per cosa pensi necessiti del tuo contributo?»
Léandre rimase spiazzato.
«Ecco…» iniziò «Ho… ho sentito una cosa, e ho pensato che...»
Christophe scattò in avanti, puntandogli la canna della pistola sotto il collo.
«Cos’hai sentito? Stavi forse origliando, soldato?»
Léandre sbiancò per il terrore, e cominciò di botto a parlare scorrevolmente:
«Non volevo origliare, signore. Giuro! Ero al ricevimento del conte Leroy. Per la sorveglianza. E ho sentito la contessa parlare di una questione di sicurezza nazionale, dire che vi eravate dovuti ritirare di fretta dal ricevimento. Voglio solamente dare una mano, signore. Non mi spari, la prego!»
Alexandre non riuscì a evitare di ghignare.
«Credi davvero di poter dare una mano a qualcuno, tu? Codardo quale sei?»
Il comandante stava già cercando, a suo modo, d’evitare che quella storia si diffondesse troppo, ma non sapeva cosa balenasse nella mente del suo generale.
«Invece può esserci utile.» sussurrò Alexandre.
Christophe si voltò a osservarlo, confuso. Gli occhi di Léandre s’illuminarono.
«Sorvolerò sulla tua intromissione in faccende che non ti riguardano, soldato.» accennò il generale, mentre la pistola veniva riposta e Léandre si acquietava «Dopo tutto, hai dimostrato spirito d’iniziativa. E quest’audacia non deve andare sprecata, vero comandante?»
Christophe, ancora confuso, cercò di non darlo a vedere.
«Senza dubbio, generale.»
«Mio caro Léandre, questa notte diventerai un patriota!»
Alexandre gli strinse saldamente le spalle con le mani.
Il soldato annuì con una punta di timore e incertezza.

(4) «Oh cielo… siete un demonio!» rise Christophe «Siete certo che quello stolto non finirà per farsi ammazzare?»
Alexandre scosse la testa, confidentemente. Léandre se n’era appena andato con la sua nuova missione.
«È troppo codardo per riuscire a fare qualcosa di avventato» assicurò.
«Ma voi lo avete caricato con discorsi così patriottici!» controbatté Christophe.
«Gli uomini non cambiano. Lo sapete bene. Il coraggio di un soldato resta integro fino a che si fa vittorioso. Al primo segnale di sconfitta, chi era coniglio torna coniglio, e chi era leone, beh… dipende da quanti conigli ha attorno.»
Il comandante annuì.
«Ma allora perché mandarlo dai selvaggi che controllano la miniera? Pensate davvero che possa ottenere qualche informazione vantaggiosa? Non capirà nemmeno quello che dicono, e da ciò che sostenete voi, sarà impegnato a nascondersi in un cespuglio.»
Alexandre scosse ancora la testa.
«Non m’interessa ciò che farà. M’interessa che sia là. M’interessa che i selvaggi abbiano preso in ostaggio un soldato, comandante.»
«E che il nostro reggimento sia costretto a intervenire per riprenderselo.» concluse sorridente Christophe.
«Precisamente.»

(5) Il mattino seguente la guarnigione venne allertata.
Il soldato Léandre Gaillard, in missione speciale per sua maestà il re, non aveva contattato i suoi superiori nei tempi prestabiliti.
Si supponeva che, dato il pericolo insito nello spiare e riferire i movimenti dei selvaggi, spostatisi nelle montagne a nord ovest, il soldato fosse finito preda degli stessi, provando la pericolosità del gruppo di nativi.
Per prevenire nefandezze di costoro in vicinanza della città, o sventuratamente nella città stessa, e per recuperare l’eroico Léandre, il primo e terzo reggimento cittadino sarebbero stati mobilitati per reprimere la minaccia con la forza, guidati dal generale Alexandre Lois Laurent e il comandante Christophe Raoul Mathieu.

(6) Furono presto a cavallo.
Un centinaio di soldati armati di fucili e baionette si trovavano alle loro spalle.
Sarebbe stato un gioco da ragazzi ripulire la zona e presidiarla in attesa d’informare il conte Leroy.
Avrebbero potuto mangiare sugli utili della miniera per qualche tempo, prima che la cosa venisse ufficializzata, e dato che sarebbero stati loro a rivelare il fortuito ritrovamento, nessuno avrebbe potuto accusarli di niente.
Un conto era la fedeltà alla patria, difenderla con le armi e difendere i suoi interessi in terre che avevano usurpato ai selvaggi, un conto era avere a che fare con una miniera di diamanti.
Potevano variare esclusivamente gli avvoltoi che ne avrebbero approfittato, per poi farsi belli di fronte al re, che non avrebbe di certo diviso.
Se doveva cadere tutto nelle mani dei soliti nobilotti, incapaci di gestire le loro stesse braghe, sarebbe stato uno spreco. Alexandre non poteva più tollerarlo.
Leroy aveva le informazioni e gli esperti, ma aveva bisogno del suo intervento e dei suoi soldati per mettere il piano in pratica.
Si sarebbero divisi il ricavato e, col rischio che l’altro spifferasse tutto, non potevano fregarsi a vicenda.
I soldati non sapevano nulla, ovviamente. Soltanto Christophe era a conoscenza della verità, e lui non contraddiceva mai l’operato di Alexandre.
I diamanti, in tasca loro, non sarebbero stati sprecati. Poi, il re e i suoi prediletti avrebbero dilapidato tutto, come al solito; ma, prima, dovevano ottenere quel che gli spettava, almeno quello.

(7) Raggiunsero i monti in poco tempo.
«Ho mandato un paio di uomini in avanscoperta, generale.» riferì Christophe.
«Pare che i selvaggi siano poco più di una trentina. Se anche gliene fosse sfuggito qualcuno, ipotizzerei non possano essere più di quaranta. Si sono appostati prevedibilmente in un punto rialzato, e neanche un terzo sono armati: archi, lance, un paio di fucili rubati. I rimanenti sono giovani, donne o anziani. Un piccolo gruppo nomade, coi suoi difensori, ma privo di un significativo potenziale ostile.»
Alexandre annuì.
«Circondiamo il perimetro della loro base, lasciando un’apertura dalla quale possano scappare; poi apriamo il fuoco. Non è necessario colpire quelli non ostili. Ammazzate quelli coi fucili e gli altri armati, se opporranno resistenza. Pensò che due scariche in aria li terrorizzeranno a sufficienza.»
Questa volta fu Christophe ad annuire.
Un grido in lontananza attirò l’attenzione di Alexandre.
«Generale! Generale!»
Vide un soldato con una divisa logora, tinta di verde scuro, con rametti e foglie incastrati fra i capelli.
Léandre, reggendo il fucile in una mano, agitava l’altra, mentre correva in direzione delle truppe e del generale.
Alexandre scosse la testa.
«Abbiamo salvato l’eroe della patria.» sussurrò ironicamente Christophe.
«Fatelo passare!» ordinò il generale, inducendo i soldati a fargli largo.
Léandre raggiunse i loro cavalli ansimando e reggendosi le ginocchia.
«Non pensavo di rivedervi così presto, generale.» esordì «Dato che mi avevate ordinato di restare per…»
«Sì, sì, ricordo bene i tuoi ordini.» tagliò corto Alexandre.
Léandre tentennò, poi riprese il discorso, sembrava avesse qualcosa di urgente da riferire:
«Signore, ho scoperto una cosa incredibile. Veramente incredibile!» Comandante e generale si osservarono.
«Cos’hai scoperto, soldato?» domandò Christophe.
«Forse è meglio che lo dica a bassa voce.» sussurrò Léandre, riflessivo.
Si avvicinò più che poté, ed entrambi s’incurvarono per ascoltarlo:
«I selvaggi hanno un diamante grosso come un pugno chiuso. È il diamante più bello che abbia mai visto.»
Esitò.
«A dire il vero credo sia, l’unico, diamante che abbia mai visto.»
Alexandre deglutì, e i suoi occhi verdi brillarono d’avidità, la stessa che aveva osservato negli occhi dei servitori del conte Leroy.
«Grande come un pugno, dici?» chiese incantato.
«E di notte brillava come una stella, signore. Uno spettacolo.»
«Comandante, modificherò il mio ordine!» esclamò con forza Alexandre.
«Circondate completamente il perimetro e catturate tutti i selvaggi. Ammazzate quelli che opporranno troppa resistenza.»
Christophe titubò. Non era da lui. Non controbatteva mai agli ordini, mai. Non le fece neanche questa volta.
L’ordine venne gridato agli uomini, la marcia scandita, i fucili caricati.

(8) Non fu una battaglia.
Ai primi spari, gli uomini selvaggi dalla pelle rossa, sbucarono dalle rocce per tirare le loro frecce, lance e imprecisi colpi di fucile.
Due furono freddati immediatamente.
Quando alla seconda raffica di spari ne caddero altri tre, dilagò il panico. I soldati non trovarono più resistenza e poterono bloccarli uno a uno. Bambini, donne e anziani, riparatisi a terra per paura dei fucili, furono presi più facilmente di tutti.
«Abbiamo trentadue prigionieri, generale. Adesso cosa intendete fare?»
Christophe sembrava irrequieto. Alexandre lo squadrò con una punta d’irritazione.
«Perquisiteli!» ordinò «Fatelo voi stesso, con l’aiuto di Léandre. Non voglio che ciò che cerchiamo cada nelle mani sbagliate.»
Il comandante annuì, mentre il generale lo squadrava ancora.

(9) «Non abbiamo trovato alcun diamante.» asserì più tardi e con tono piatto Christophe.
«Cosa?» strepitò Alexandre.
«Nessun diamante, generale.»
«Mi hai forse mentito, brutto idiota?»
Il generale si rivolse aspramente a Léandre, che già tremava.
«Po… posso giurarvi di averlo visto! Lo… lo avevano con loro.»
«E allora dov’è? Ve lo siete intascato?»
Christophe aggrottò le sopracciglia, mentre Léandre continuava a giustificarsi:
«I… il selvaggio che lo aveva non è fra i prigionieri!»
«Controllate i cadaveri, allora!» ordinò Alexandre.
«No… non è nemmeno tra loro.»
«Quindi te lo sei sognato?»
Il generale oramai era su tutte le furie.
«Pensa si sia nascosto in una delle lunghe grotte in cui vivevano.» rispose per lui Christophe, a braccia conserte.
«Come possiamo esserne certi?»
L’ira di Alexandre cominciava a mutare in sconforto.
«Se fosse fuggito in campo aperto lo avremmo avvistato. L’avanscoperta, per mio ordine, teneva sotto controllo un cerchio più ampio. Se era qui, vi si trova ancora, non c’è dubbio.»
Christophe rispose sicuro e orgoglioso e Alexandre riprese a sorridere.
«Posso sempre fidarmi, di te.»
Il comandante annuì, ma senza dimostrarsi lusingato.
«F… forse posso a… aiutare anch’io.» s’intromise Léandre.
Il generale l’osservò scettico.
«U... una delle giovani selvagge passava molto tempo con l’uomo del diamante. Fo… forse erano amanti.»
Alexandre scosse il capo.
«Lo troveremo da soli.»
Christophe, al contrario, indugiò.
«Quelle grotte potrebbero essere pericolanti e non sappiamo quanto si spingano in profondità. Con quello che c’è in palio dobbiamo occuparcene noi e avere una guida sarebbe vantaggioso.»
Alexandre gli prestò attenzione.
«La ragazza potrebbe sapere precisamente dove si trovi l’uomo, o persino conoscere il luogo dove ha nascosto il diamante. Ci farebbe risparmiare molto tempo, e temo che i nostri soldati si insospettiranno rapidamente.»
Il generale si soffermò a riflettere.
«Dovremmo comunque convincerla a parlare, e in privato.»
Léandre intervenne timidamente:
«Si… signore, voi avete fama d’essere un do... donnaiolo. L… la ragazza è bella, per essere una selvaggia. Come generale potreste reclamarla per voi e agli uomini non sembrerebbe strano. L… lei potreste sempre persuaderla.»
Avevano coinvolto quel sempliciotto nei loro affari senza quasi rendersene conto. Ad Alexandre le sue ultime parole non furono sgradite.
«Credevo che la tua zucca vuota non fosse capace di questo! Ovviamente ci accompagnerai dentro la grotta.»
Léandre annuì con entusiasmo.
«È il caso di tenerlo d’occhio…» sussurrò il generale a Christophe, mentre il sempliciotto li precedeva.

(10) I tre raggiunsero i prigionieri e la ragazza descritta da Léandre.
I suoi polsi erano stati legati con della corda, come agli altri selvaggi. Teneva il capo chino.
La sua pelle era rossa, come di norma per la sua gente. I capelli erano lunghi fino a poco oltre le spalle e di un nero intenso. Le forme del suo corpo palesavano che fosse giovane e in forma.
Gli abiti di panno erano sporchi di terra; durante la sparatoria doveva essersi accasciata al suolo come molti altri.
Una collana di pietre colorate, di poco valore, ne adornava il collo fine.
«È… è lei!» esclamò Léandre.
«Portatela qui, allora.» ordinò il generale.
La giovane alzò il viso, rivolgendogli lo sguardo.
Aveva gli occhi azzurri, chiarissimi, più intensi di quelli di Christophe. I tratti del suo viso erano il frutto di una mescolanza fra quelli dei selvaggi e degli invasori. Il risultato era sbalorditivo: un volto dai tratti noti e al contempo esotici, misteriosi e per questo affascinanti.
Era improbabile che fosse nata al seguito di un rapporto voluto. Era molto più probabile che fosse la conseguenza di uno stupro.
Quando la ragazza venne condotta via, i soldati già sogghignavano e discutevano fra loro.
L’idea di Léandre aveva funzionato, e divenne vincente quando, Christophe, annunciò agli uomini che il generale doveva ritirarsi in privato.
Diede comunque l’ordine di mettere in piedi il campo per la notte, poiché già sapevano che avrebbero mantenuto il presidio.
Un paio di soldati, invece, ricevettero l’ordine di tornare in città a consegnare un breve messaggio al conte Leroy: il generale lo informava di aver avuto successo.
Ora, Alexandre, sapeva di dover far ricorso a le sue doti per asservire la ragazza. Conosceva un po’ dell’idioma dei selvaggi e pensò di esordire con una serie di rassicurazioni riguardo alle sue intenzioni.
Lei lo anticipò, peraltro, parlandogli nella sua stessa lingua, correttamente, seppur con un marcato accento straniero:
«Cosa vuoi da me?»
La domanda era semplice, posta senza paura, persino sdegnosa.
Alexandre si limitò a fissarla e questa parve stizzirsi ancor di più. Indietreggiò di qualche passo, come se temesse che le saltasse addosso da un momento all’altro.
«Come ti chiami?» le domandò il generale, incrociando le braccia.
«Aquene, significa pace.»
Il tono della ragazza sembrava tutt’altro che pacifico.
«Perfetto.» si fece avanti lui «Io voglio la pace, Aquene, e non intendo farti del male. Sempre se tu…»
«Sempre qualcosa, volete voi!» lo interruppe la ragazza ostilmente «Distruggete le nostre case e le fate vostre, uccidete gli uomini e violentate le donne, rubate la terra e la maltrattate, e questo non vi basta! Come se fossimo noi i debitori, continuate a chiederci qualcosa. Con che coraggio chiedete? Con che coraggio pensi che io ti sia debitrice e debba fare qualcosa per te?»
Non era l’inizio che Alexandre auspicava.
Quella ragazza possedeva una carica d’odio difficile gestire, ma il generale confidava di avere ancora delle carte da giocare.
«C’è un uomo, fra la vostra gente, un uomo che non abbiamo preso.» accennò, ignorando le sue parole «Un uomo che aveva una grande pietra lucente, come quelle che porti al collo, ma molto più grande.»
Aquene non lo degnava di uno sguardo.
«Io voglio quella pietra e so che quell’uomo è ancora qui, in una delle vostre grotte. Se tu mi aiuti a trovarlo e a trovare la pietra, dopo potrete andarvene tutti, liberi.»
La ragazza sbuffò sdegnosa.
«Se tu non mi aiuti, invece, quando lo troviamo lo ammazziamo e così faremo con tutti i prigionieri.»
Alexandre sapeva che le sue doti da dongiovanni servivano a poco, in quella circostanza. La ragazza era ostile e decisa, molto più di quello che si aspettava da una selvaggia. L’unica maniera che aveva per persuaderla ad aiutarli era tramite delle minacce concrete.
Gli occhi di Aquene si accesero d’odio. Sembrava stesse per esplodere, ma le mani erano legate. Si guardò attorno pensierosa e agitata, senza rispondere.
«Voglio la pietra, Aquene.» ribadì Alexandre «E dopo avremo la nostra pace.»

(11) L’aveva convinta.
Pur con riluttanza, la ragazza selvaggia aveva deciso di aiutarli.
Indicò ad Alexandre la grotta nella quale l’uomo si nascondeva, la stessa grotta dove sosteneva avessero trovato la pietra luminosa assieme a tante altre più piccole.
Il generale riferì ogni cosa a Christophe e Léandre, con occhi avidi.
Si avventurarono tutti e quattro nella grotta.
I polsi di Aquene erano ancora legati.
La grotta era molto buia e la ragazza rivelò loro dove custodivano delle torce rudimentali. Ne accesero due, le impugnarono Christophe e Léandre. Alexandre, invece, assunse il compito d’impedire alla selvaggia di fuggire o fare strani scherzi.
La grotta era particolarmente irregolare, si stringeva e allargava costantemente, sembrava molto profonda e il livello del terreno scendeva gradatamente.
Léandre sdrucciolò in avanti, rischiando di cadere.
«Più avanti ci sono delle aperture: fossi.» dichiarò Aquene «Se siete così goffi ci cadrete dentro.» aggiunse provocatoria.
«Ringrazia se non ci buttiamo te.» le rispose Alexandre, intimidatorio. Poi si girò verso Christophe, divertito.
Quello scosse la testa, non comprendendo dove stesse lo spasso.

(12) Come anticipato dalla ragazza, sui lati della grotta apparvero due larghi fossati. Quello a destra pareva infinito, l’altro proseguiva per circa sei metri, e sul fondo erano visibili formazioni rocciose acuminate.
Il terreno era sempre più inclinato. Tutti loro cominciarono a camminare più quatti, per mantenersi stabili.
Questa volta fu Aquene a sdrucciolare. L’insistente vicinanza del generale minava il suo equilibrio. Fu proprio lui ad afferrarla saldamente mentre cadeva all’indietro.
«Dove cercavi di andare?» domandò ironico.
Aquene si lamentò con un verso.
«Potreste anche liberarmi da queste.» affermò mostrando le corde «Vi sto guidando e dicendo tutto. Volete farmi cadere giù?»
Alexandre osservò Christophe, che scosse il capo. Léandre si guardava attorno, come se la cosa non lo riguardasse.
Alexandre indugiò, mentre Aquene lo fissava.
Era sempre adirata con lui, era scontato, ma in quel momento c’era un che di supplichevole nel suo sguardo.
Christophe percepì in qualche modo i pensieri del generale e cominciò a chiedersi se la prigioniera fosse furba come temeva.
«Credo di poter tenere sotto controllo una ragazzina.» decretò Alexandre.
Aquene venne liberata dai legacci.

(13) «Chi è l’uomo che si nasconde nella grotta?»
Alexandre pose la domanda mentre riprendevano il cammino. La ragazza si massaggiava i polsi arrossati.
«Il vostro capo tribù? Un semplice guerriero o un qualunque nomade codardo?»
Aquene aggrottò le sopracciglia, ma dopo un sospiro gli rispose:
«È colui che ci guida. È colui che ci avrebbe portato lontano da qui, oggi, prima che arrivaste voi a impedircelo.»
Il generale rimase sorpreso.
«Andarvene? Perché volevate andarvene? Vi siete insediati qui da poco.»
«Questa è la nostra terra. È nostro diritto stare qui.» specificò fieramente Aquene «Ma poi abbiamo trovato la pietra che cerchi.» riprese amaramente «E lui sapeva che questo vi avrebbe attirati, che vi avrebbe condotti a distruggerci, anche se siamo in pochi, soltanto per avidità.»
Alexandre esitò.
«Siete consapevoli del valore della pietra?»
«Non siamo degli stupidi. Questo continuate a credere, e questo vi fa pensare di poterci fare quello che volete. Perché siamo bestie, ai vostri occhi. Ma le bestie siete voi, che vi uccidete per una pietra luminosa, anziché dare il giusto valore alle cose, il giusto valore alla vita.»
Quelle parole, pronunciate con forza e convinzione, scossero Alexandre. Non era abituato a sentire qualcuno rivolgersi a lui con quella sincerità e se si voleva, impudenza. Era abituato agli inganni, agli interessi personali, ai complotti politici, le lotte di potere.
Ben pochi, fra quelli che conosceva, davano un valore alla vita altrui. Solo alla propria. E così si era adattato a fare lui, per sopravvivere e aspirare a qualcosa.
«Non pensava sareste arrivati così presto. Ma così è stato.» concluse tristemente la ragazza «E ora tutto quello che lui diceva si è avverato. Voi siete qui, e quella pietra luminosa, bellissima, verrà cosparsa di sangue. Del nostro sangue, del vostro sangue, del tuo e del mio sangue.»
Aquene lo fissava dritto negli occhi. Alexandre rimase paralizzato. Anche se appariva disillusa, la ragazza continuava ad augurarsi che quel ragazzo bianco riuscisse a comprendere nel profondo le sue parole.
«Do... dovremmo proseguire, generale.» intervenne Léandre.
Alexandre esitò ancora un poco. Lei continuava a fissarlo.
«S… sì, proseguiamo.» decretò, sottraendosi al suo sguardo.
«A breve arriveremo all’ultima parte della grotta. Là, troverete la vostra pietra preziosa.» dichiarò mestamente Aquene.
«Bene.»
Christophe parve rasserenarsi.
La grotta tremò improvvisamente. Una parte del terreno roccioso appena sotto Léandre si spaccò, portando il soldato a cadere in avanti, addosso al suo generale. La botta fece perdere l’equilibrio anche ad Alexandre, che senza appigli, si ritrovò a cadere all’indietro, verso il fossato.
Christophe gridò il suo nome, mentre cercava di superare Léandre, ma era chiaro che non avrebbe fatto in tempo a raggiungerlo.
Alexandre cadde nel vuoto.
Una mano afferrò la sua e una seconda si strinse al suo polso.
Era Aquene.
Il contraccolpo fece cadere la ragazza a terra, mentre con tutte le sue forze stringeva il braccio del generale sospeso nel vuoto. Non poteva resistere a lungo, ma il tempo sufficiente a permettere a Christophe di aiutarla.
Il generale venne tratto in salvo, sconvolto, mentre sia il comandante che la ragazza ansimavano per la fatica.
Léandre li osservava terrorizzato, col timore che qualcuno gli si avventasse contro.
Pensavano ad altro.
«Perché lo hai fatto?» furono le prime parole di Alexandre, in preda all’incomprensione.
«Ho minacciato te e la tua famiglia, non avevi nessun motivo per salvarmi, nessuno!»
Aquene lo fissò negli occhi, profondamente. Il suo era uno sguardo deciso. Non benevolo, non dolce, esclusivamente fiero.
«Perché il mio popolo e io diamo il giusto valore alla vita. Perché il mio popolo e io, per quanto possiate farci soffrire, non siamo come voi.»
Alexandre percepì un fremito.
«Ti ammiro...» sussurrò senza pensare.
Il generale era visibilmente scosso e Christophe decise di prendere in mano la situazione, spingendoli a proseguire.

(14) Raggiunsero l’ultima sala della grotta. Vi trovarono un uomo dalla pelle rossa, con una lancia in mano, i lunghi capelli neri e gli occhi grigi. Era piuttosto anziano.
Teneva salda, sotto il braccio, una pietra luminosa, che anche in quell’oscurità la fiamma della torcia rendeva sfavillante.
Era grande quanto un pugno, il diamante più bello che si fosse mai visto, e di sicuro il più prezioso.
Aquene si fece avanti e gli parlò. Furono parole brevi, ferme. L’uomo la osservava incerto. Non le rispose.
Era spaventato, non per sé, per la sua gente.
Abbassò la lancia.
«Gli ha detto che li lasceremo liberi, se ci darà la pietra.» sussurrò Alexandre a Christophe.
«Lo faremo davvero?»
Il generale sospirò.
«Sì... lo faremo davvero.»
L’anziano capo nomade poggiò la pietra a terra, ai piedi di Alexandre.
Il generale s’inchinò e l’afferrò. La strinse col palmo osservandone le sfaccettature.
Era davvero splendida.
Attraverso il cristallo trasparente vide gli occhi di Aquene, così fieri anche nell’umiliazione, così fieri anche nella sofferenza.
Davvero splendida…

(15) Due spari risuonarono nell’aria. Due colpi secchi, assordanti.
Alexandre si gettò a terra, chiudendo istintivamente gli occhi. Quando li riaprì il diamante che stringeva era ricoperto di sangue, così come il suo viso.
Aquene era accasciata contro la parete della grotta, la testa riverso al suolo, al suo fianco il capo della tribù, a terra, immobile.
Erano stati uccisi da quei colpi, entrambi.
Percepì un rumore, distorto dalla confusione, il rumore prodotto da qualcuno che lascia cadere qualcosa.
Christophe era frastornato quasi quanto il suo generale.
Léandre aveva appena fatto cadere a terra due pistole a un colpo, ora inutili. Le sue mani strinsero il fucile. Approfittò della confusione e corse verso il comandante, conficcandogli la punta della baionetta nel fianco.
Alexandre si voltò di scatto. Impallidì.
Christophe stava sputando sangue dalla bocca. Si accasciò contro un’altra parete rocciosa.
Léandre si voltò verso il generale, con la baionetta sporca. Era il prossimo.
Alexandre ebbe il tempo di estrarre il fioretto che portava al fianco, più ornamentale che altro. In questo caso non lo sarebbe stato.
Il soldato l’osservava preoccupato, ma non quanto Alexandre si sarebbe aspettato. Quello non era lo sciocco Léandre che ricordava.
Il soldato avrebbe potuto sparagli, ma sarebbe stato abbastanza rapido? Erano molto vicini, forse con una stoccata lo avrebbe colpito per primo.
«Perché?» gli strillò Alexandre con angoscia.
«La contessa Elenoire, signore.» rispose il soldato. Era visibilmente teso ma allo stesso tempo sprezzante, sembrava compiacersi di farsi beffe del generale.
«Suo marito non è abbastanza furbo da tenerla all’oscuro dei suoi piani, e quando l’altra notte sono venuto a casa vostra sapevo benissimo della miniera, come sapevo che pensavate fossi uno stupido. Beh, questo stupido ora otterrà il suo! Sono io ad avervi sfruttato, signore. Io!» sputò le ultime parole col gusto di una vendetta cercata da tempo, come una rivalsa nei confronti non solo del generale ma di una vita intera.
«Intendi tenere il diamante per te, quindi?» gli domandò Alexandre.
«Metterò fuori gioco anche il conte Leroy, se voglio, e la contessa Elenoire sarà soltanto mia. Mi ha promesso il suo amore, se l’avessi aiutata. Vo… voleva che foste voi a sostenerla e prendere il posto di suo marito, ma non siete stato abbastanza uomo! Lei è venuta da me e… e ha trovato quel che cercava!»
Il generale scosse la testa. Pensare di poterlo colpire per primo era una mera illusione.
Abbassò il fioretto, e si limitò a fissarlo negli occhi, con lo sguardo di chi, seppur silente, sta gridando: «Spara!»
Lo sparò arrivò, forte come sempre, impietoso come sempre.
Léandre si accasciò al suolo, tremante, facendo cadere il fucile nell’incomprensione.
Alexandre si voltò a destra, incolume, sorpreso quanto il suo avversario.
Christophe, accasciato in un angolo, teneva il braccio destro alto. La sua fedele pistola fumava.
«La contessa ha trovato esattamente quel che cercava…» sussurrò fra i gemiti di dolore «…l’idiota che le serviva.»
Alexandre gli corse in contro per controllare la ferita, lasciando cadere il diamante. Non impiegò molto a comprendere ch’era mortale, che il sangue che fuoriusciva era troppo, per essere fermato. Quell’ultimo gesto era stato solamente il segno della forza di volontà indomabile di un comandante fedele, di un amico, che ora sarebbe venuto meno.
Il generale non poté più trattenere le lacrime, mentre stringeva la mano del suo compagno d’arme, che l’osservava fermo, sempre più consapevole dell’avvicinarsi della notte, ma non spaventato dal suo terribile dono di quiete.

Alexandre non sarebbe stato capace di dire quanto tempo fosse passato, quando riprese il diamante fra le mani.
Era così poco lucente, ora, macchiato dal sangue di amici, nemici e innocenti, sporcato e annerito dalla terra. Un oggetto freddo, di valore così alto per gli uomini, ma che agli occhi di colui che lo aveva tanto bramato, ora, sembrava solamente un pugno di polvere.


Fine

3 mar 2016

Tra le pieghe del sipario

Oggi vorrei parlare un po' del mio libro "Tra le pieghe del sipario" e condividere con voi il prologo della storia. Così, per darvi un assaggio.
Partirei dalla sinossi, per poi aggiungere qualche dettaglio:

Il Puppets Asylum è un circo esuberante e grottesco diretto dall’ambiguo Aurelian Dragomir, dove sono i tarocchi a determinare l’ordine delle esibizioni dei suoi singolari artisti. Riuscirà uno spettatore qualunque, ossessionato dalla stella del circo: la celestiale Serafina, a scoprire i segreti  più oscuri di questa compagnia?
Un storia che alternativamente si tinge delle sfumature di un giallo o di un horror, dove razionalità e irrazionalità si scontrano e dove tutto può rivelarsi un inganno.  

La particolarità di questo testo sta, forse, proprio nella sua natura ibrida fra horror e giallo. Devo confessare che per il primo genere ho sempre avuto una predilezione, specialmente per l'horror psicologico, mentre del secondo non sono un appassionato accanito. E' stata dunque una sfida stimolante combinarli per esigenze narrative. 
La storia è scritta in prima persona ed è suddivisa fra parti oniriche (principalmente descrittive e criptiche, rese più comprensibili dall'avanzare della trama), parti più scanzonate (legate alla natura del protagonista e il suo quotidiano) e parti investigative (conseguenti agli eventi della storia e le riflessioni del protagonista). A volte questi elementi si intrecciano e si sporcano gli uni con gli altri. Specialmente in questi casi il lettore è chiamato a farsi la propria idea, estrapolandola dagli eventi, le informazioni ottenute e le parole dei personaggi.
Se aveste altre curiosità siete invitati a pormi qualsiasi domanda. Chi fosse interessato a leggere il testo completo può comprarlo cliccando sotto "Acquisto eBook" nella colonnina a destra.
Vi lascio al prologo della storia:

Prologo

          
L’altra notte, ho fatto un sogno.
Era un sogno strano, oscuro e avvolgente, ma non era un sogno sgradevole. Potevo percepire un’emozione forte, calda eppure malinconica, che mi guidava in una terra sconosciuta, come se i miei occhi osservassero il ricordo di qualcun altro. Una nebbia sottile offuscava la vista, mentre, passo dopo passo, procedevo in una foresta colma di misteri indecifrabili.
Sentivo dei sussurri, dietro di me, ma voltarsi equivaleva a udirli sempre alle proprie spalle.
Erano delle creature, quelle ombre nere e sfuggenti fra la flora selvaggia? Credo di saperlo, ora.
Le forme contorte dei salici e il frusciare del loro fogliame cinereo mi spaventavano, ma era un’emozione tutta mia, da spettatore; poiché la forza che muoveva i miei passi, semmai, era inebriata, scalpitante.
Stava per accadere qualcosa di decisivo, di fondamentale, alla base di uno straordinario susseguirsi di eventi, capaci, nella loro immanità, di far gelare il sangue. Allora perché, il mio, pareva sul punto di prende fuoco? Non potevo saperlo.
Arrivai in un’ampia radura triangolare, e ne raggiunsi il centro. Lì, per la prima volta, vidi le mie mani, fatte d’ombra, che poggiavano sul terreno una pietra levigata, con uno strano simbolo sopra: un’infinità di figure geometriche inscritte, circondate da parole e lettere di un alfabeto che non avevo mai visto. Mi persi a osservarle per un tempo che pareva infinito, ma il vero padrone del sogno non era immobile. Era come se la sua emozione rovente si stesse incanalando verso la pietra, con un getto di energia invisibile, capace di rendere irrespirabile l’aria circostante.
Prima che potessi realizzarlo, la pietra era già divenuta un masso, dieci, poi cento, poi mille volte più grande. Una montagna nasceva di fronte ai miei occhi, reclamando metà della radura e parte della foresta, senza che la natura avesse alcun modo di ribellarsi.
Avrei spalancato la bocca, incredulo, persino atterrito, ma non potevo farlo. La formazione rocciosa aveva smesso di crescere, solamente per cominciare a modellarsi, guidata dallo sguardo che condividevo. Un potere inimmaginabile dava vita a mura imponenti, torri merlate e tetti conici, la stessa materia alterava la propria forma per ottenere quella desiderata, senza limiti, sgretolando la mia concezione dell’impossibile.
La montagna, ora, era un castello, maestoso e terribile al contempo, la dimora di un potere superiore e irraggiungibile, che non doveva essere sfidato. Tuttavia, l’opera di creazione, non era volta al termine: rivoli della stessa energia modellavano delle inferriate, che circondavano la radura rimasta libera alle mie spalle. Dei rampicanti vi si attorcigliavano, e da essi, rose bianche e nere sbocciavano, ricolme di rugiada. Un giardino, con sculture intagliate nelle siepi di bosso, prendeva forma: si ergevano cavalieri con le spade rivolte verso il cielo, ma privi di testa; fiere rabbiose o ibride con gli uomini, come le creature mitologiche; fanciulle pudiche, incapaci di coprire la propria nudità e mostri deformi, ingobbiti, con troppi arti o senza, sofferenti o fieri della propria diversità.
Un soffio di vento caldo diffuse nell’aria del polline fra il rosso e l’arancio, mentre un’alba innaturale sorgeva, illuminando quel luogo del mondo che non doveva esistere.
Tutto rimase immobile, come se il silenzio fosse indispensabile, come se colui che non ero, dovesse godere di quel momento. Era una rivalsa, la sua? La dimostrazione a qualcuno in particolare, con la presunzione di un bambino, di cosa fosse capace?
La stasi non durò a lungo. Una folata rapida, ma intensa come quello di un tifone, prese il sopravvento. Alle mie spalle, il cancello che chiudeva il perimetro delle inferriate, si spalancò. Alberi giganteschi vennero spazzati via come fuscelli. Una nuova radura, circolare, nacque in meno di un istante.
Un tendone scese adagio dal cielo, nero e bianco come le rose, e dei pali emersero dal terreno, consentendogli di dare forma all’ultima anomalia di quel sogno.

Mi svegliai di soprassalto.
Non ero spaventato, ma forse avrei dovuto esserlo. Il cuore batteva all’impazzata, carico, vivo; sentii il bisogno di premere il palmo di una mano contro il petto, come se dovessi fermarlo.
«Va tutto bene.» ripetei a me stesso almeno tre volte, calmandomi gradatamente, convincendomi che fosse davvero così.
I miei occhi scrutarono l’oscurità della camera, abituandosi a distinguere le sagome dei vestiti, sparsi per la stanza generando un disordine del quale solamente io ero capace. Gli tenevano compagnia sacchetti di patatine vuoti e fazzoletti sporchi, ma non era il momento di pensare alle mie pessime abitudini. Gli occhi cercavano qualcos’altro, volgendosi al comodino in vimini alla mia sinistra: poco più in alto si soffermarono sul poster della splendida Eleonora Montale, in arte “Serafina”.
Sospirai, riconquistando realmente la serenità, seppur brevemente.
Sopra il comodino, di fianco a una sveglia elettronica che segnava le tre e un quarto, si trovava un biglietto che mi era costato molto, ma non avrei mai ritenuto troppo.
Una scritta sgargiante e di un colore acceso, che a quell’ora non era distinguibile, recitava: “Puppets Asylum, il circo stregato, valido per una persona e una serata che non potrete dimenticare”.
Percepii un brivido incontrollabile lungo la schiena. Non lo avrei fatto, non lo avrei fatto di certo.

2 mar 2016

Miraggi

Dopo tantissimo tempo il blog torna in vita!
Vorrei evitare di perdermi in chiacchiere sugli impegni/eventi che mi hanno tenuto lontano da questo progetto e concentrarmi su quello che cambierà:
Inanzitutto le storie brevi verranno riportate interamente nei post, senza link esterni. Cercherò poi di informarvi anche sui progetti che mi vedranno coinvolto come sceneggiatore e di mettere in anteprima qualche pagina dei romanzi scritti.
Sarà inoltre possibile seguirmi anche su facebook attraverso la pagina Enrico Serpi - In cerca di Calliope.
Ma passiamo all'ottava storia del blog: "Miraggi". Ci tenevo a riniziare questo percorso con quella che è la storia "breve" più lunga che abbia mai scritto (ho numerato i paragrafi per darvi un riferimento) e l'ho rispolverata un bel po' per renderla il più possibile conforme al mio stile attuale. La storia tratta principalmente il concetto di libertà, a voi scoprire in che modo. E' ambientata in luoghi dal sapore mediorientale e in un epoca indefinita che strizza l'occhio al passato. Non è adatta ai bambini
Senza dilungarmi ulteriormente, lascio spazio alla storia:

Miraggi

Immagine resa disponibile dal sito https://pixabay.com/


In un lontano regno ha origine la storia.
Dove domina un palazzo regale con lussureggianti giardini.
Qui un giovane principe ne percorre le preziose sale.
E la sua mente vaga e inverte dal piccolo al grande.
Dal palazzo s’invola lo sguardo della sua anima.
Dal regno fugge via senza mirare indietro.
Nei deserti le cascate di dorata sabbia lo accolgono.
E da lì corre ancora, nell’indefinibile.


(1) Era immobile, in una stanza dalle pareti splendenti e ricca di adornamenti fra i più preziosi. L’oro modellava rilievi in dipinti dai colori forti, tappeti dagli eleganti intrecci ricoprivano il pavimento e sculture di gemma trasparente si ergevano a ogni angolo. Guardandosi attorno, gli occhi non potevano che brillare, specialmente quelli di qualcuno di avido; ma i suoi occhi, contrariamente, era distratti, intenti a sognare quel che non aveva a che fare con la ricchezza.
Dopo tutto era un principe, il principe Josmar, nato fra monete luccicanti e cresciuto in una culla di rubino. I suoi avi avevano accumulato tesori per secoli e, forse, era proprio l’abitudine a tutto quello sfavillare, non dover faticare per nulla, a fargli desiderare ciò che il denaro non poteva concedergli.
Il principe Josmar voleva conoscere, viaggiare, scappare dalle costrizioni che quella vita aveva prestabilito per lui.
Avendo ormai raggiunto la maturità, o almeno quella che a livello fisico era reputata tale, avrebbe presto conosciuto la guerra e scelto una sposa.
Sul primo campo, Josmar, aveva udito numerosi racconti per voce del gran visir, fin dall’infanzia; ma per un principe adulto era necessaria un’esperienza diretta.
Anche se le gesta eroiche alimentavano le sue fantasie, il principe già sapeva che, comandare un esercito, comportava il solo “onore” di decidere quali soldati dovessero vivere e quali sacrificarsi per la vittoria. Sempre che tutto andasse secondo i piani.
Josmar disdegnava la guerra, la riteneva un’antichissima bestia costantemente rabbiosa e imprevedibile, che risvegliava gli istinti più bassi degli uomini, la furiosa preservazione di se stessi.
Era convinto che l’unico scontro che comportasse realmente onore fosse il duello, fra due uomini consapevoli del valore di una simile sfida e incapaci di abbandonarsi a vili scorrettezze, poiché assente il timore di subirle. Essenzialmente un’utopia.
Dove avrebbe mai trovato un combattente con i suoi stessi ideali? Nel suo regno certamente no.
Che dire poi del secondo campo?
Innumerevoli erano gli interrogativi che Josmar si poneva sull’amore. Ma anche in questo caso, il principe, sapeva che la vita non gli avrebbe riservato quel che cercava.
Non per l’aspetto. Era certamente giovane, di buona altezza, dai bei tratti e dalla pelle del colore di un chicco di caffè. I suoi occhi erano verdi come smeraldi preziosi e la sua barba, pur rada, elegantemente curata.
Ma se anche l’aspetto non fosse bastato, la sua posizione avrebbe consentito alla sua compagna di ottenere tutto quel che bramava.
Cosa poteva dunque temere Josmar? Non una, non dozzine, non centinaia, che dire? Migliaia di donne, avrebbero desiderato altro che diventare la sua sposa. Anche la seconda o la terza.
Il principe, però, non voleva una compagna fedele, uno scendiletto o una schiava di piacere. Josmar voleva amare ed essere amato e sapeva che tutte quelle donne avrebbero amato il principe, non lui.
Per questo sognava ancora una volta di luoghi lontani, di affascinare una ragazza coi suoi racconti, coi suoi pensieri, e di scoprirei in lei assonanze e dissonanze nell’equilibrio giusto che alimenta passione e dolcezza, modellando amore.
Lo sconforto per il suo destino, però, tornava presto, seppure in tanti avrebbero fatto volentieri a cambio.
Josmar si sentiva vincolato, costretto in una prigione fatta di catene d’oro che voleva spezzare, anche col rischio di cadere nel fango.
Conosceva bene le alternative. Poteva rassegnarsi al suo futuro e divenire lascivo, avido e tirannico, come tutti i suoi avi; oppure, poteva ribellarsi e dar vita a quel piano che la sua mente sussurrava da anni: fuggire.
Questa volta, il coraggio, trasformò i pensieri in azione.
Giovane e inesperto, il principe portò con sé il minimo che riteneva necessario. Arraffò provviste d’acqua e cibo, monete e gemme per poco peso e una splendida lama d’argento sulla quale si narravano leggende.
Coi tratti celati da un velo bianco e in sella a un destriero vigoroso dal manto nero, partì al galoppo senza indugi.
Non voleva essere seguito, difficile credere che non sarebbe accaduto. Josmar sapeva di poterlo evitare in un solo modo: avventurandosi fra le dune di quel dorato deserto a sud. Una rapida via verso la morte per la maggior parte degli uomini, ma nella quale, rintracciarlo, era bene o male impossibile.


(2) Non fu complicato lasciare il regno. La seta che mascherava i suoi tratti era preziosa e la gente poteva facilmente confonderlo per un nobile, ma nessuno immaginava si trattasse del principe Josmar.
Gli zoccoli del suo destriero nero sollevarono sabbia in poco meno di un’ora.
Era straordinario quel deserto, osservato innumerevoli volte con desiderio, come un ostacolo da affrontare con piacere per il raggiungimento di uno scopo: la libertà.
Quella lunga distesa pareva infinita. Era principalmente piana, ma le dune gli facevano da colline, colline mutevoli come il tempo. Affidarsi a loro come un riferimento duraturo era come affidare la propria vita a un assassino.
Il vento leggerissimo, quasi assente, dava vita a uno spettacolo stupefacente: i granelli di sabbia finissima si spostavano lievi in ogni dove, ordinati per lo più dal corso della brezza. Erano loro, in quella lenta azione che poteva durare ore come minuti, a formare e disfare le dune.
Il calore e la luce del sole dominavano incontrastate. Non una nuvola, non un riparo.
Il re abbagliante, dall’alto del cielo, diffondeva i propri figli come raggi roventi.
Era giorno e il regno del deserto rendeva manifesto il proprio essere.
Josmar indugiò un solo istante. Osservò la sabbia dorata da quel punto, come se fosse una soglia. Incredulo e fiero al contempo, spinse il destriero in avanti.


(3) Il calore era un dono, questo si ripeteva il principe mentre la cavalcatura avanzava quieta.
Non si preoccupava di essere celere, almeno in quel momento. Voleva godere dello spettacolo, dello splendore di quel paesaggio.
Era certo che nessuno si fosse ancora accorto della sua fuga, e quando lo avrebbero fatto, seguite le sue tracce fino al deserto, sarebbero tornati indietro, raccontando a suo padre che, per compiere un gesto simile, doveva essere caduto vittima della pazzia.
Se la rideva, soddisfatto. Non lo atterriva minimante l’idea che, forse, quella fosse davvero una pazzia.
Passarono delle ore, non molte, e il principe, pur sempre impavido, si soffermò a riflettere s’un dettaglio tralasciato:
Non sapeva quanto avrebbe impiegato ad attraversare il deserto.
Non esistevano stime precise, a dire il vero. I pochi che sostenevano di averlo fatto, lo avevano fatto in tempi molto diversi. C’era persino chi raccontava di esservi rimasto intrappolato per mesi, ovviamente perdendosi.
Non erano storie particolarmente allegre.
Josmar si ritrovò a indugiare sui particolari di quei racconti, le sofferenze, gli stenti, persino la follia.
L’animo ardimentoso li respinse di colpo. Il suo viaggio, certamente, sarebbe stato diverso. Quello era un cammino verso la libertà e lui non era uno sprovveduto.
Sapeva come ripararsi dal caldo e dal freddo e avrebbe razionato al meglio le provviste.
Una volta attraversato il deserto trovare viveri sarebbe stato uno scherzo.
La mente di Josmar si proiettava verso il futuro, in modo rassicurante.
Prendersi gioco dell’ostacolo era un metodo per trovare la forza di volontà necessaria ad affrontarlo. Il principe lo faceva inconsapevolmente e questo, per lui, era un bene.
Sempre che la possibilità di superare l’ostacolo non fosse soltanto un’illusione.


(4) Mancava poco al tramonto e il principe osservava la posizione del sole.
La temperatura non accennava a scendere e l’abitudine o il giusto abbigliamento non sembravano bastare. Quel calore non perdonava.
Josmar si sentiva lievemente stordito e affaticato, anche se aveva compiuto sforzi fisici da poco.
Quando il sole si tinse d’arancio decise di fermarsi.
Era uno spettacolo seducente. I colori del tramonto tingevano il cielo, mentre la sabbia, non più dorata, si scuriva, producendo un’atmosfera magica.
L’ammaliante deserto del tramonto, però, diveniva anche misterioso e ingannevole. La sua bellezza, una volta attratto l’uomo, lo tradiva, gettandolo in una sconfortante notte oscura e gelida.
Al quel freddo, il principe, non era abituato. Sapeva sarebbe arrivato, ma non lo aveva immaginato così intenso, così rapido, pronto a insinuarsi in ogni spiraglio.
Quella notte era così nera in confronto al recente splendido giorno, e un sensazione opposta tanto forte da essere quasi inconcepibile, favoriva l’avanzare di paure irrazionali sulla debole mente inquieta.
Percepiva artigli d’ombra poggiarsi sulle sue spalle, per dilaniarle e trascinarlo via nella notte ignota. Immagini imperscrutabili si rivelavano e sparivano. Suoni terribili rimbombavano in un silenzio impossibile. Si infiammavano luci lontane, irraggiungibili, ma rosse come il sangue; fari in luoghi dove non voleva essere, ma che gli occhi lo condannavano a guardare, rendendolo lì almeno in parte, in mezzo al terrore.
Josmar si svegliava tremante, incubo dopo incubo. Erano sempre confusi e dalle difficili interpretazioni, nulla di logico, ma era proprio questo a renderli così agghiaccianti.
Non era forse il peggior timore dell’uomo: l’ignoto? La primitiva paura del buio e della solitudine, subire il male da qualcosa che non si comprende, o non comprendere qualcosa e temere per questo che conduca al male.
I sensi di Josmar lo impietrivano, la sua mente, disperata, reclamava il giorno, ma continuava a risvegliarsi di notte, la stessa notte gelida e ignota, pronta ad assalirlo con un altro incubo mostruoso.


(5) La prima notte lontano dal proprio comodo letto, dalle ricchezze e il lusso, non poteva essere peggiore.
Josmar aveva riposato poco, troppo poco, per quella mente stordita dal calore e congelata dalla notte. La luce del giorno, al suo arrivo, si rese piacevole, ma quando le temperature tornarono roventi, l’intero corpo parve sul punto di cedere.
Non era passato neanche un giorno, neanche un misero giorno.
Josmar era stremato, confuso. Quel mare dorato era fuoco, al contatto, e non sarebbe riuscito a riposare ancora neanche volendo.
Il principe tornò in sella. Il suo sguardo era spento. Una flebile memoria, più simile a un istinto, era l’unica cosa a guidarlo.
Passarono ore ottenebrate, che lo resero più simile a uno spettro che a un uomo. La sua mente combatteva una battaglia all’ultimo sangue, e quando i suoi occhi si chiusero, non lo fecero piacevolmente. Lo fecero a mezzogiorno, per un motivo di un semplicità disarmante: il crollo.


(6) La sua mente vagava ancora nell’ignoto, in incubi che, seppur della stessa intensità di quelli notturni, non riuscivano a risvegliare la sua coscienza.
Il tempo passava, incalcolabile. Il suo concetto non pareva nemmeno esistere.
La morte giunse a tendergli la mano, ma il gelo della notte, quello che aveva odiato, fu l’artefice del suo risveglio.
Privo di riparo, gli si gettò addosso con assoluta crudeltà, e il colpo fu così secco, da concedergli l’ultima possibilità di rinvenire.
Il vigore della sua giovinezza si fece largo, cogliendo quell’opportunità e legandosela al petto rabbiosamente, pronto a mordere chiunque provasse a sottrargliela.
Josmar si risvegliò di colpo, ma senza scattare in piedi. Si spalancarono i suoi occhi. Il resto del corpo era immobile, bloccato dalle intemperie che lo stavano sconfiggendo.
Riottenere la sensibilità di ogni muscolo era una sfida, favorita solamente dall’istinto di sopravvivenza.
Il principe si sentiva umiliato. Anche in un momento come quello la mente riusciva a trovare spazio al senso dell’onore.
Alcuni lo avrebbero ammirato per questo, altri deriso.
Forse, però, fu proprio il senso dell’onore, sciocco e immaturo, a triplicare l’ira e le sue forze, smuovendo il corpo, obbligandolo a consumare e cercare ogni energia nascosta, a gridare, come un generale che osserva le sue truppe arrendersi, per spronarle a continuare a combattere, ingannandole, giurando che la battaglia possa essere ancora vinta, permettendogli di raggiungere la carica per compiere ciò che altri ritengono impossibile.
Josmar riuscì a risollevarsi in piedi.
Gli occhi erano arrossati, le labbra secche, tutto il corpo tremolava per la fatica e il freddo, retto esclusivamente da quella volontà indomita necessaria a conquistare ogni singolo secondo di stabilità.
Il destriero era scomparso, il buio non aiutava a scorgerlo, ma non era certamente nei dintorni. Galoppava chissà dove, chissà da quanto. Forse era persino morto.
Tutto era andato perduto. Tutto ciò che era custodito nelle bisacce da sella, tutte le sue provviste.
Era la fine?
Era facile raggiungere una simile conclusione, a quel punto, ma la mente di Josmar era troppo impegnata a confondersi, troppo stordita, troppo silenziosa, per porsi anche le domande più ovvie.
Il principe cominciò a camminare, strascicando, coi bianchi abiti sporchi di sabbia. I passi erano lenti, difficili da conquistare, erano passi di volontà e basta.
Anche le energie nascoste, però, non posso durare per sempre. Per quanto il principe fingesse di ignorarlo, conquistando qualcosa in più, a corpo morto, muore anche la mente, muore la volontà.
Josmar vacillò, dando l’impressione di cadere all’indietro, ma il corpo, ondeggiando, in mano solo al volere di forze altrui, cadde infine in avanti, producendo un tonfo al contatto col mare di dorata sabbia.
A occhi aperti, le sue ultime energie si mossero verso l’orgoglio:
«Almeno morirò libero…» sussurrò, mentre una lacrima gli rigava il viso.
In realtà, l’ultima briciola delle sue energie, di nascosto, aveva raggiunto un altro fronte: il pentimento.
Era davvero necessario tutto questo? Era davvero necessaria quella fuga? Era davvero necessario morire per essere liberi?
Erano alcune delle sue scelte che si erano rivelate sbagliate? O era “La” scelta a essere sbagliata?
Perché non si riceveva mai nessuna risposta?
Qualcuno avrebbe risposto una volta morti?
Il suo corpo tremò, con un ultimo spasmo. Lo attraversò la terribile convinzione che no, non era così. La convinzione che non ci sarebbe stato nulla, che sarebbe morto senza sapere nulla, che sarebbe diventato nulla a propria volta e senza avere neanche la possibilità di rendersi conto d’essere tale.


Nulla…










(7) «Non riesco a farlo bere!»
Josmar sentì che il suo corpo veniva scosso.
«Dai a me, incapace!»
Percepì fresco sul viso, acqua che scorre, poi qualcosa afferrò la sua bocca, rigida. Ogni sensazione era debole.
Delle mani forzarono le sue labbra, obbligandole a scindersi con forza, il dolore era un eco lontano.
L’acqua scese nella sua gola, ma deglutire era difficile. Il corpo aspettava un comando che non riceveva. La conseguenza fu involontaria, incontrollabile: tossire.
Il principe Josmar era vivo e ancora nel deserto, in pieno giorno.
Due uomini si trovavano con lui e possedevano tre dromedari, riforniti di ogni necessità.
Gli uomini avevano i tratti della sua gente: cappelli e pelle scura.
Il primo era in carne, col viso rotondo e l’aria buona; gli occhi erano grandi e marroni e la sua barba arruffata.
Il secondo pareva il suo opposto. Era emaciato, col viso ovale e l’aria scortese; gli occhi sembravano due spilli grigi e la sua barba era incredibilmente curata.
Erano vestiti bene, ma non sembravano dei nobili, in ogni caso portavano scimitarre di buona fattura alla cinta.
In un primo momento Josmar non si preoccupò di chiedergli chi fossero. L’acqua aveva risvegliato i suoi istinti primari e la sua unica occupazione, ora, era bere litri del prezioso liquido, accompagnandolo con del cibo, offerto dagli uomini, che lo fece quasi ingozzare.
L’osservarono tutto il tempo. Quello grassoccio sembrava perplesso, o incuriosito; il secco invece appariva sdegnoso, o riflessivo.
Fu quest’ultimo a interrompere il silenzio:
«Siete stato molto fortunato, principe.» proferì con una voce roca, udibile il tanto che basta.
Sapevano chi era.
Josmar si fermò un istante a osservarlo, ma riprese rapidamente a rifocillarsi.
«Ci ha inviati vostro padre. Siamo soldati del palazzo, ma dubito vi ricordiate i nostri volti.»
Le ultime parole sembravano sprezzanti.
«I vostri nomi…» si limitò a domandare Josmar. La sua voce era affaticata.
«Io sono Rahim e lui Qader.»
Fu il più rotondo a parlare e la cosa non sembrò far piacere all’altro.
«Grazie.» mormorò semplicemente Josmar.
I due soldati si fissarono un istante, poi si acquietarono, rimandando la discussione a quando il principe avrebbe finito di sfamarsi.


(8) Josmar venne aiutato a montare in groppa a uno dei dromedari.
Preferiva i cavalli.
Quella bestia emanava un odore poco gradevole, ma era certo che, dopo la sua disavventura, per quanto lo riguardasse non fosse diverso.
I tre si misero in cammino, e fu lo stesso principe a riprendere la discussione:
«Stiamo tornando al regno?» domandò retorico.
«Sì, principe.» rispose Qader, senza battere ciglio.
Josmar tentennò, portando la propria cavalcatura a fermarsi.
«Qualcosa vi turba?» chiese Rahim. I soldati si erano fermati a loro volta.
«Non so se voglio seguirvi.» rispose il principe, senza troppi indugi.
«E cosa vorreste fare, allora?» 
Il tono di Qader era indagatore.
«Io…»
Il principe continuò a titubare. La sua mente lo ricondusse a quei terribili attimi che aveva creduto essere la fine.
«Pensate di restare nel deserto a morire? C’eravate quasi riuscito, principe.»
Qader parlava con un tono freddo, non aggressivo; ma proprio quella mancanza di sentimento, quella sincerità spietata, risultava fastidiosa.
«Non dovresti rivolgerti a lui in questo modo!» esclamò Rahim, preoccupato. Rivolse subito dopo un sorriso a Josmar.
«Principe, vostro padre vi aspetta. Il vostro regno vi aspetta. Dove altro dovreste essere?»
Josmar distolse lo sguardo. Osservò alle proprie spalle.
Dove doveva essere?
Che domanda apparentemente semplice, che nascondeva in sé tante di quelle sfumature e inganni da poter far impazzire un uomo.
«Possiamo dire al sultano di avervi trovato morto.» dichiarò freddamente Qader.
Joasmar alzò lo sguardo per fissarlo. Coglieva qualcosa in lui. Le sue parole parevano un’arma a doppio taglio.
In fondo, però, era una soluzione.
«Che cosa dici?» sbraitò Rahim, angosciato.
«Principe, seguiteci. Il regno è casa vostra. Lì potrete riflettere, discutere con vostro padre. É un uomo tanto saggio, saprà darvi consiglio.»
A Josmar venne quasi da ridere. Suo padre non era un uomo saggio, né qualcuno che fosse abituato a perdonare. Lui aveva il solo vantaggio d’essere un principe. I disertori, anche i nobili, venivano giustiziati senza indugi. Già immaginava quale prigione sarebbe divenuta il palazzo al suo ritorno. Una prigione della quale si sarebbe liberato solamente alla morte del sultano.
«Non v’invidio.» affermò Qader, dandogli l’impressione di avergli letto nella mente.
«Suvvia.» intervenne ancora Rahim «Noi vi ammiriamo, principe. Voi sarete il nostro sultano, un giorno; l’uomo più potente del regno, il più nobile, il più ricco, il più amato!»
Sembravano lusinghe melliflue, ma erano la verità. Al regno aveva tanto. Non tutto quello che voleva, certo, ma nel mondo esterno aveva rischiato la morte in così breve tempo.
Una volta divenuto sultano, forse…
«State ancora a pensarci, principe? Vi prego!»
Rahim continuava la sua supplica, mentre Qader si limitava a fissarlo con quegli occhi a spillo, imperscrutabile.
Era un bivio, un bivio sul quale, poco tempo prima, non avrebbe indugiato un istante. Eppure ora lo faceva. Valutava ciò che era a favore e a sfavore con una prospettiva diversa. Non era affatto semplice scegliere.
La libertà. Aveva aspirato alla libertà.
Ma quanto era fondato quel concetto? Quanto era fondata quella ricerca?
La libertà comportava rischi incredibili e in cambio non era detto la si ottenesse realmente, a meno che non si considerasse la morte una liberazione.
Ma lui voleva la morte?
Oppure scappava da lei, come ogni altro essere vivente?
Chi gli garantiva di trovare qualcosa di vero, la fuori?
Chi gli garantiva che ciò che cercava esistesse?
Aveva avuto tanto, tantissimo. Cose per le quali innumerevoli persone avrebbero ucciso, a lui erano state regalate.
Perché era così egoista da non accontentarsi?
La sua ricerca di libertà era un pregio o era semplicemente una pretesa? Quanto derivava dalla morale e quanto dall’immaturità?
Possibile che nessuno dei suoi avi avesse cercato di percorrere quella via?
Tutti avevano accettato il loro destino senza ripensamenti?
Oppure sapevano qualcosa che lui ignorava?
Avevano raggiunto una verità segreta?
Qualcosa che concedeva solamente l’esperienza?
Forse, avevano scoperto che la libertà era una menzogna. Una favola per bambini. Un’utopia.
In quante utopie aveva creduto?
«Principe, forza. Ci date motivo di preoccuparci, se restate tanto immobile.»
La voce di Rahim risveglio Josmar dai suoi pensieri.
«Vi seguo. Fate strada.»
Alla risposta del principe, Qader, distolse lo sguardo. Aveva scosso la testa?


(9) Proseguirono il cammino in silenzio.
Joasmar osservava le spalle dei due soldati. Non sapeva che espressione avessero né cosa pensassero.
Anche lui aveva smesso di riflettere. Cercava di lasciare la mente quieta, di distrarsi con il paesaggio, che aveva perso tanto in bellezza, dopo quelle vicende.
In breve tempo si rese conto che i due uomini, per rientrare, avevano scelto un percorso diverso dal suo. Dovevano essere esperti e lo confermava della vegetazione in lontananza. Un’oasi.
Il principe s’illuminò.
Avrebbe potuto rinfrescarsi, togliersi la sporcizia di dosso.
«Facciamo una sosta. Vi assicuro che non scapperò, Rahim!»
Josmar voleva risultare scherzoso, ma i due soldati non risposero. Si limitarono a fermarsi.
Il principe lo prese come un assenso e si diresse immediatamente verso l’oasi.
Era un paradiso, poteva vederlo da lontano. Sembrava innaturale, inverosimile. La vegetazione era florida, di un verde intenso, le palme erano altissime e nascondevano lo scorrere di un fiumiciattolo, che si gettava in un piccolo lago splendente.
C’era da chiedersi quali fortuite condizioni avessero permesso la nascita di quel luogo. Erano gli straordinari contrasti del deserto.
Fu in quell’istante che Josmar sentì uno strano rumore provenire dal lago.
Nascosto dalla vegetazione, il principe volse lo sguardo verso l’origine del suono.
Colse una nera chioma ondulata. Delle bronzee spalle nude. Braccia snelle e  dei fianchi sottili.
La figura era immersa nel lago, di spalle rispetto al principe, ma si stava ergendo lentamente, lasciando cadere tante piccole gocce a increspare l’acqua.
I capelli bagnati si mostrarono nella loro lunghezza, sempre più giù, fino a raggiungere il bacino.
Il principe Josmar si ritrovò a deglutire, mentre gli occhi spalancanti osservavano.
Era una donna.
Non sembrava essersi accorta di lui e continuava a muoversi sinuosa, rinfrescando il proprio corpo con l’eleganza di una dea.
Il principe non si mosse. La sua mente aveva deciso di tralasciare se fosse lecito o meno restare a guardare.
Ebbe modo di osservarne il viso poco dopo, mentre usciva dall’acqua. Le labbra erano di un rosso leggero, il naso fine, lo sguardo sognante e le iridi dello stesso colore di quelle acque azzurre.
Non si chiese cosa ci facesse lì una ragazza degna d’essere una principessa, si limitò a lodarla per le sue grazie.
La giovane si rivestì con degli abiti preziosi che alternavano il rosso all’arancio, e si pose al collo una preziosa collana d’oro adornata da un grande rubino.
La ragazza scomparve fra la vegetazione in un istante e per il principe fu come lo spezzarsi di un incantesimo.
Scosse la testa, tornando a riflettere.
Com’era possibile che fosse lì da sola?
Come vi era arrivata?
Non la seguì. Non aveva il coraggio di mostrarsi in quello stato a una simile visione. Finì perciò per fare quel che aveva già progettato: lavarsi.
Fantasticò per tutto il tempo su di lei, tanto da restare a mollo più di quanto fosse necessario. Finché non udì dei passi avvicinarsi.
«Rahim, Qader, ora vi raggiungo! Non avete di che preoccuparvi, non mi è accaduto nulla.»
Il principe si era già alzato in piedi. Trovandosi fra uomini non aveva nulla di cui vergognarsi.
Il suo sguardo, incrociò degli occhi azzurri che sbucavano dalla vegetazione, delle labbra di un rosso leggero, un naso fine, dei lunghi capelli neri ondulati che arrivavano fino al bacino.
Si fissarono per alcuni istanti, entrambi immobili.
Lentamente le gote di ambedue arrossirono per il divampare dell’imbarazzo.
Alla fine, lei strillò.


(10) Gli servì un po’ di tempo per giustificarsi. E ovviamente dovette riconquistare un minimo di credibilità rivestendosi.
«Sono il principe Josmar.» le spiegò «Sono qui con due soldati del mio regno: Rahim e Qader. Loro vi confermeranno la mia storia.»
Sperò che rivelare d’essere un principe venisse a suo vantaggio.
«Io sono la principessa Amira» rispose lei «E non ho mai conosciuto un principe in una “veste” così poco appropriata.»
Josmar percepì un fremito. Si era lavato, certo, ma i suoi abiti non erano esattamente nelle condizioni migliori, per quanto avesse capito perfettamente che la ragazza non si riferisse a quella veste…
«Così, siete una principessa?» cercò di sorvolare.
«É per me un onore potervi dire che mi è parso chiaro fin dal primo sguardo.»
Amira l’osservò con perplessità.
«Non posso dire lo stesso di voi.» sottolineò con una sincerità disarmante.
Josmar era decisamente in imbarazzo.
«Permettetemi di condurvi dai miei servitori. Ribadisco che vi daranno conferma di quello che dico. Se siete così coraggiosa da recarvi in questo luogo senza una scorta, sicuramente non avrete timore di seguirmi per qualche passo»
Amira annuì, e gli fece segno di fare strada.
I due, superarono la vegetazione che li separava dal punto dove Josmar aveva lasciato i soldati.
Non c’era nessuno.
Amira avanzò di qualche passo, mentre il principe, immobile, osservava le dune del deserto. La principessa fece un rispettoso inchino al nulla e proclamò con parole gentili:
«Rahim, Qader, è veramente un immenso piacere fare la vostra conoscenza!»
Il principe non sapeva se ridere o piangere. Certamente, Amira, si stava divertendo molto.
«Giuro di averli lasciati qua…»
«Sono certa che lo pensiate davvero. Ma il caldo gioca dei brutti scherzi. Da quanti giorni siete nel deserto?»
La domanda della principessa era seria.
«Poco più di due.»
«E Rahim e Qader sono entrati con voi nel deserto? O li avete fortuitamente incontrati dopo?»
Josmar tentennò.
«Li ho incontrati in seguito, sì, ma vi garantisco che c’erano davvero! Mi hanno salvato la vita. Non sarei qua senza di loro.»
Amira scosse la testa.
«E dove dovrebbero essere andati, allora?»
«Questo non lo so. Non ha alcun senso…»
La povera principessa dovette sorbirsi le numerose grida di richiamo del principe, che sperava che i due soldati non si fossero allontanati troppo.
Fu lei stessa a fermarlo.
«Sentite, Josmar, non ci sono tracce lungo la sabbia, da nessuna parte. Mi avete parlato di tre dromedari e due soldati, ma non c’è nessun segno.»
«Vi dico che sarei morto senza di loro! Come potete spiegarlo, questo?»
Amira si soffermò a riflettere.
«Vi ho trovato in un’oasi. Vi sarete salvato da solo.»
Josmar scosse la testa.
«Non avevo le forze per farlo. Non è possibile.»
Il principe si lasciò cadere seduto sulla sabbia, con le mani fra i capelli.
«Io li ho visti.» ripeté più volte.
La principessa s’inginocchiò, poggiandogli una mano sulla spalla.
«Ve l’ho detto: il caldo può giocare dei brutti scherzi. Più brutti di quel che si crede. Fermatevi a riflettere. Avrebbero lasciato un segno della loro presenza. Avete qualcosa di loro con voi?»
Josmar esitò, alla fine scosse il capo.
«Allora non può essere altrimenti. Nessuna traccia, nessun segno. Li ha creati il deserto. Li conoscono in tanti come una sventura beffarda: miraggi.»
Il principe non era intenzionato a rassegnarsi.
«So cosa sono i miraggi. Non sono così complessi. Dovrei essermi completamente bevuto il cervello.»
«Da quel che mi avete detto, prima d’incontrarli avevate raggiunto il limite. La vostra mente poteva farvi credere qualsiasi cosa. Non pensiate che i miraggi siano così facili da riconoscere. É la nostra mente a generarli, sono legati a noi, a quel che sappiamo. Per noi sono reali, altrimenti non ci trarrebbero in inganno. Sono sogni a occhi aperti.»
«Oppure incubi.» aggiunse il principe.
Amira annuì.
Passarono diverso tempo a discutere, spostandosi all’ombra delle palme dell’oasi.
La principessa era veramente di gradevole compagnia.
Josmar si sentiva confuso, perso. Quella gentilezza e quel conforto erano veramente ciò di cui aveva bisogno.
E tornò il tramonto.
«Voi come siete finita qua?» Le domandò a un tratto il principe.
Amira esitò. Si era parlato soprattutto di Josmar, fino a quel momento.
«Forse a voi posso dirlo.» accennò la ragazza «Non fate parte del mio regno, né del mio popolo. Non mi giudichereste, vero?»
Aveva un viso così dolce mentre lo diceva, che Josmar si dimenticò di annuire. Si riprese appena in tempo da evitare d’apparire offensivo o ridicolo.
«Non lo farei.» le sorrise.
«Il mio ruolo mi opprime.» vuotò il sacco la ragazza «So che non dovrei pensarlo. So che dovrei rispettare le scelte di mio padre. Ma mi sento prigioniera.»
Sembrava che volesse sfogarsi da tempo. Osservava di fronte a sé, come se parlasse a uno spettro o a qualcuno in particolare.
«A volte penso che vorrei solamente scappare. Lasciarmi tutto alle spalle. Ma poi temo che sia una scelta avventata. Che non sarei capace di cavarmela da sola. In quei momenti vengo qua.»
Finalmente gli rivolse lo sguardo.
I suoi occhi erano leggermente lucidi, ma cercava di non darlo a vedere. Era una ragazza dal carattere forte, e non voleva apparire diversamente.
«Perché proprio qui?» le domandò Josmar, quasi con un sussurro.
La ragazza sorrise appena.
Era poesia osservare quegli occhi tristi che riacquisivano colore alle parole seguenti.
«Quest’oasi è il mio rifugio. In genere scappo dal mio palazzo poco prima del tramonto e faccio ritorno la mattina presto. Ma altre volte, nei giorni di preghiera, ottengo di ritirarmi in solitudine per un giorno intero. Non mi hanno ancora scoperta.» confessò divertita «É la mia piccola fuga, in qualche modo. Non ho il coraggio di non tornare indietro, ma qui mi rassereno, trovo il conforto necessario a farmi affrontare i giorni seguenti.»
Josmar sussultò appena.
«Mi spiace di aver rovinato la vostra cerimonia.» proferì sinceramente.
«Per tenervi occupata con i miei deliri, poi…»
Il principe distolse lo sguardo, amareggiato.
«Non dovete scusarvi.» lo rimproverò dolcemente lei.
«Siete stato un piacevole imprevisto. Non mi capita spesso di aprirmi, tengo tutto dentro e mi sento ancora più sola…»
Benedetto il tramonto e i colori che illuminano quelle iridi e quelle guance arrossate.
Benedetta quella mano che trova il coraggio di accarezzarle dolcemente, senza essere respinta.
Benedette quelle labbra di un rosso leggero, che si fanno sempre più vicine, conducendo gli occhi a chiudersi. Fino a che la sensazione delle bocche che si sfiorano non costringe gli altri sensi ad acquietarsi.
Il centro dell’universo è là, il resto ruota attorno.
E allora davvero, non si è più soli.


(11) Erano due amanti in una notte piena di stelle luminose. Abbracciati e immersi in quell’acqua bollente con un fuoco crepitante accanto.
Sussurravano parole solamente per l’altrui orecchio.
Un magia irripetibile frutto di un’affinità introvabile, unica, appena sfiorabile.
Josmar le accarezzava i capelli neri.
Non riusciva a distogliere i suoi occhi di smeraldo da quelli di lei; quegli zaffiri illuminati dagli astri.
Un singolo momento di sconforto lo avvolse:
«E se anche tu fossi un miraggio?»
Lei sorrise, portandosi le mani al collo.
«Ti donerò un ricordo che non sia solamente un sogno. Un ricordo vero, palpabile. Finché lo avrai con te, saprai che esisto davvero, e che ti starò pensando.»
Le sue braccia snelle sganciarono la catena d’oro con lo splendido rubino, agganciandola al suo collo.
Si scambiarono un altro bacio.


(12) Gli occhi di Josmar si aprirono.
Era giorno.
Un notte magica aveva preceduto quel dolce mattino.
Josmar era ancora incantato, ma l’arrivo del sole costrinse la sua mente a farsi più attenta.
Si guardò attorno.
Non c’era traccia di Amira.
Il suo sguardo si abbassò istantaneamente verso il collo.
Una collana d’oro, con uno splendete rubino, vi era agganciata.
Josmar emise un sospiro di sollievo.
Amira doveva essere tornata al proprio regno.
Lo aveva detto. Una principessa non poteva scomparire troppo a lungo.
Josmar cominciò a sognare una fuga che li coinvolgesse entrambi.
L’avrebbe aspettata là, fino al tramonto. Era certo che sarebbe tornata.
L’avrebbe convinta ad andare via con lui, e se si fosse dimostrata contraria, aveva sempre un’altra strada:
Lui era un principe, lei una principessa. Sarebbe tornato al suo regno e con l’autorità e il lustro che gli spettavano, l’avrebbe chiesta in sposa al sultano suo padre.
Era in preda a uno di quegli amori fulminanti.
Aveva incontrato migliaia di donne, nobili e non, con alcune aveva discusso, altre le aveva solamente osservate o sentite parlare, ma nessuna aveva quella scintilla che aveva colto in Amira.


(13) Durante la mattina, il principe decise di sgranchirsi un po’.
Non voleva allontanarsi troppo dall’oasi, anche perché non conosceva altri luoghi riparati.
I suoi passi lo condussero comunque sulla sabbia rovente.
Era intento a osservare quel mare dorato, capace di procurargli dolori e piaceri inaspettati.
«Sapevo che me n’era sfuggito uno…»
Una voce parlò alla sua sinistra. La voce di uno sconosciuto.
Era una voce profonda, sicura di sé. Intimidente.
«Sinceramente spero tu non sia né un codardo, né uno di quelli che cercano di farmi la morale.»
Josmar si voltò a osservarlo.
Si trattava di un uomo alto e imponente, con un fisico modellato dall’esperienza. I suoi capelli erano ricci e il loro nero cominciava a ingrigirsi. Il naso era adunco, gli occhi di ghiaccio, induriti da troppa consapevolezza e affaticati dalle occhiaie di una giovinezza perduta.
Era protetto da una corazza di maglia rilucente e fra le mani stringeva una scimitarra argentata sulla quale si narravano leggende. La scimitarra ch’era rimasta col destriero perduto di Josmar.
«Credo che questa sia tua.» proferì.
«É mia, ladro!» esclamò Josmar con eccessiva spavalderia principesca.
«Non m’interessano le tue ricchezze, e non sono un ladro, mi spiace deluderti.»
L’uomo si accarezzò il collo e Josmar notò una catena d’oro.
Il principe abbassò istintivamente lo sguardo verso il proprio, di collo.
La collana con il rubino era sparita.
«Come hai fatto, ladro?» esclamò sbarrando gli occhi.
«Fatto cosa?»
«Mi hai preso la collana! Restituiscimela, cane!»
Gli occhi dell’uomo s’infiammarono.
«Ho sentito bene? Mi hai appena dato del cane? Dopo avermi accusato di essere un ladro? Questo non va bene ragazzo, non va bene per niente...»
Il suo tono era adirato, ma quello di Josmar non fu da meno.
«Ti ho detto quello che sei, né più né meno. Ora restituiscimi la mia spada e la mia collana!»
L’uomo sollevo la scimitarra argentata, facendovi riflettere un raggio di sole. Tese leggermente il braccio all’indietro, per poi muoverlo in avanti con un gesto muscolare secco e potente.
La lama volò per diversi metri, fino a conficcarsi nella sabbia a poco passi da Josmar.
«La spada te l’avrei restituita comunque, idiota.»
L’uomo portò le mani alla propria schiena, afferrando il manico di un’altra spada. Il metallo sfregò il fodero legato alle sue spalle, e una lama larga il doppio fece la sua comparsa.
«Ma quella collana te la sei persa o sognata. Il caldo fa brutti scherzi.»
«Questo me l’hanno già detto.» gli rispose sprezzante Josmar, afferrando il manico della propria spada e sfilandola dalla sabbia.
«In ogni caso…» riprese l’uomo «…non c’è un solo cane che sia rimasto vivo dopo essersi azzardato a paragonarmi a lui. Quando ti avrò ucciso, domanda al signore dell’oltretomba dove si trovino coloro che sono morti sotto la spada di Husam. Se ti perdi lungo il cammino, ti basterà seguire i guati.»
I due partirono letteralmente alla carica.
Josmar non aveva idea di chi fosse quell’individuo, ma per riprendere il dono di Amira era disposto a uccidere.
Era pur sempre un principe, abituato a essere rispettato, non sfidato.
Le spade sbatterono fra loro con un forte fragore metallico.
La forza di Husam risultò evidente fin dal primo colpo. Il braccio di Josmar fu costretto a indietreggiare. Pochi istanti e il guerriero aveva già ruotato la grossa spada, per fendere lo spazio nel quale si trovava il principe. Josmar riuscì a schivare a malapena il colpo.
Era incredibile, il suo avversario aveva la lama più pesante, eppure era stato sia più forte che più rapido.
Non c’era tempo per riflettere. La lama bassa di Husam si sollevò rapidamente dalla sabbia, pronta a colpire ancora. Josmar riuscì a frapporre la lama d’argento con energia appena sufficiente a bloccare il colpo.
«Così giovane e così inesperto.»
Husam sussurrò quelle parole poco prima d’incurvare la lama, fino a renderla perpendicolare al ventre di Josmar e poi affondare.
Il principe non aveva avuto il tempo di controbattere. Aveva già perso parando maldestramente il colpo, e ora il suo sangue macchiava di rosso il mare dorato.



(14) Gli occhi di Josmar erano chiusi. Parole rimbombavano mentre il corpo restava a terra:
«Io qui ho concluso.» mormorò la prima voce.
«Era così giovane Husam.» valutò una seconda.
«Non m’interessa. Sono stato provocato, Hakim. Lo sai come reagisco quando vengo provocato.»
Un breve silenzio.
«Ti senti provocato troppo spesso, a mio giudizio.»
Un verso di protesta.
«Abbiamo passato quello che abbiamo passato, Hakim. Ci sono persone giuste e ci sono i cani. Sono sempre di più i cani, ti dico. E io, i cani, se l’incontro li ammazzo.»
Un sospiro.
«Sei veramente convinto di migliorare il mondo, in questo modo? Che ne sai se fosse un cane o meno? Hai almeno parlato, con questo?»
Ancora uno sbuffo.
«Sì che c’ho parlato. Delirava s’una collana che avevo rubato. Mi ha dato del ladro, e del cane. Lui a me! Ti rendi conto?»
Ancora un breve silenzio.
«Avevi la sua spada. Gli hai spiegato perché?»
«Non me ne ha lasciato il tempo.»
Un secondo sospiro di sconforto.
«Tu credi di sapere come gira il mondo, Husam. Ma temo che la tua voglia di usare la spada sia più forte di quella di usare la lingua. Non farai molte cose giuste, così.»
Si percepirono dei passi allontanarsi.
«Stai forse dicendo che sono stato ingiusto? Quante cose ingiuste abbiamo fatto in guerra?»
I passi continuarono ad allontanarsi. La prima voce aumentò d’intensità in proporzione a quanto si facevano distanti.
«Quante cose ingiuste ci hanno fatto in guerra, Hakim? Devo ricordarti cos’è successo a mio figlio?»
Le ultime parole sembrarono vacillanti, influenzate dal dolore.
La seconda voce, in lontananza, finalmente rispose:
«Quello che hai ammazzato, Husam, poteva esserlo tuo figlio.»
Rimase solo il silenzio.



(15) Si udì il nitrito di un cavallo e un uomo sbatté le palpebre, portando subito la mano al ventre.
La risollevò, osservandola. Non era sporca di sangue.
Poi si toccò il collo, rapidamente.
Non vi era alcuna collana.
Era sopra un destriero nero, su quale erano caricate provviste e una lama argentata sulla quale si narravano leggende.
Il suo sguardo era incredulo.
Era appena il tramonto.
Si spinse in avanti, guardando di fronte a sé.
Una terra più fertile lasciava il posto alla sabbia. Pochi passi e il deserto sarebbe rimasto alle sue spalle, un ostacolo superato.
Il principe Josmar guardò dietro di sé.
Quanto era stato in quel deserto?
Come vi era uscito?
Cos’era accaduto davvero?
C’erano stati due uomini, due soldati, uno secco e uno grasso, che lo conoscevano così bene, che sapevano far vacillare il suo desiderio di libertà con dubbi così simili ai suoi?
Lo stavano cercando ancora nel deserto?
E se sì, dov’erano scomparsi?
Erano stati uccisi?
Si erano persi a loro volta?
Che fossero tornati al regno, consapevoli che in fondo non li volesse seguire?
C’era stava davvero una collana dorata, con un grosso rubino ad adornarla?
Forse era caduta nella sabbia, forse nel lago, forse era stata rubata da un manigoldo con trucchi inspiegabili.
C’era stata davvero una principessa così bella? Così affine a lui? Coi suoi stessi problemi? Con le sue stesse pressioni?
Che pensava e diceva le stesse cose che lui ripeteva da anni?
Pronta a fuggire con lui dopo una notte magica come lo sono solo nei sogni?
E se sì, stava pensando a lui?
Lo stava cercando all’oasi chiedendosi dove fosse scomparso?
C’era stato davvero un veterano di guerra? Reso freddo dalla battaglia e la scomparsa di un figlio? Accompagnato da un uomo saggio che ne giudica le azioni con tanta accuratezza?
E se sì, perché lo aveva ferito?
Perché aveva la sua spada?
Aveva rubato la sua collana? 
Che avesse ritrovato il suo destriero e le sue cose?
Che volesse solamente restituirgliele?
Come poteva essere sopravvissuto a quella ferita?
Forse l’uomo saggio l’aveva rimesso in sesto e posto sul cammino.
Ma come?
Quanto era passato?
Quanto?
Era mai caduto da cavallo?
Il deserto era finito e avrebbe custodito quei misteri per sé.
La vita passata, era oramai alle sue spalle, il futuro in avanti, con la libertà agognata. Ma le risposte assenti.
Era tutta una prova per conquistarla, quella libertà?
Era tutto un gioco della mente del quale doveva smettere di preoccuparsi?
La sua testa era vicina a esplodere.
Avrebbe avuto tempo per scoprirlo. Era il futuro che gli dava modo di farlo, così come gli permetteva di lasciarsi il passato alle spalle.
Ora era libero, libero di scegliere.
Era quella la vera forza della la sua terribile e adorabile libertà. Superate le menzogne della mente che cercava di farlo desistere.
Senza prigioni era libero di correre i propri rischi, libero di sbagliare, libero di scoprire, libero di cercare, libero di amare, libero di morire.
Ora e sempre, avrebbe dovuto combattere coi muri imposti da sé, i più pericolosi. Trovare la forza per abbatterli senza paura e non pentirsi di quella scelta.
Sapeva che c’erano sfide insormontabili, al di là dei propri limiti, ma era in grado di accettarli, quei limiti e di combattere per distruggere i presunti tali, dietro i quali fin troppi si nascondevano passivamente, lasciando morire la propria libertà, consolandosi con sconfortanti parole in merito alla sua inesistenza.
Poteva sembrare un battaglia fine a se stessa, senza un risultato che non fosse quello d’essere liberi, ma un uomo che si rendeva schiavo, andava inevitabilmente e sempre contro il proprio interesse, generava da sé la propria sconfitta, anche vivendo in un castello fatto d’oro, anche distraendosi con mille notti di finto amore. Erano vite fatte di nulla.
Un uomo libero, invece, anche nella sofferenze rendeva alla vita uno schiaffo di forza incalcolabile, poiché per un uomo libero, la sconfitta non esisteva neanche nella morte.
Josmar era illuminato dalla propria consapevolezza, da l’esperienza che quel viaggio aspro, misterioso, piacevole e doloroso, gli aveva donato.
Avanzava libero verso la sua vita, che cominciava realmente da ora.

Un tremito lo colse.
Sempre che anche quello, non fosse un miraggio.


Fine…?